lunedì 27 febbraio 2012

L'ALFABETO EBRAICO


L’Alfabeto Ebraico

E’ uscito nel mese di Giugno 2011, dalla Casa Editrice Morcelliana di Brescia, l’ultimo libro di Paolo De Benedetti, a cura di Gabriella Caramore, “L’Alfabeto Ebraico”. Possiamo dire l’ultima “perla”, di questa fattiva collaborazione, realizzata grazie alla trasmissione radiofonica di Radio Tre “Uomini e Profeti”.
Scrive Gabriella Caramore nel risvolto di copertina del libro: “In nessun’altra lingua, forse come nell’ebraico, un alfabeto è così intriso di storia, di senso, di materia dell’uomo e di presenza di Dio. In nessun’altra lingua il codice espressivo è così denso di carne e di sangue, d’interrogazione filosofica e di pensiero teologico. Dio sul Monte Sinai si è incarnato, se così si può dire, in una scrittura fatta con l’alfabeto.” E’ sorprendente che un argomento arido, come può essere quello di parlare e discutere di o su un’alfabeto, parlare e discutere dell’alfabeto ebraico, diventi invece un’avventura affascinante,  coinvolgente.
Possiamo iniziare dicendo che l'alfabeto ebraico è composto da ventidue lettere (ventidue è il valore numerico della circonferenza, approssimata per leggero difetto, di un cerchio il cui diametro è sette, uno dei numeri-chiave della creazione). Ognuna di esse è uno strumento attraverso il quale un intero settore della creazione fu formato e fatto.[1] Nel libro è citato un bellissimo midrash, che troviamo in  Bereshit Rabba' 1,10[2], secondo cui nasce una discussione (disputa), il testo dice, durata per ben ventisei generazioni, tra le lettere dell’alfabeto che chiedono al Santo benedetto egli sia, perché la creazione del mondo non è iniziata con una di loro. La prima lettera, la alef, è offesa, perché essendo la prima, e sarebbe stato giusto che il mondo iniziasse con lei.  Il Santo benedetto egli sia, ha il suo bel da fare a convincerla, e infine la consola dicendole che quando darà la Torà sul Monte Sinai comincerà con lei come è detto: “’Anoki ’adonaj ’eloheka” “ Io sono il Signore Dio tuo” ( Es 20,2).
Osserva bene la Caramore: la storia dell’alfabeto ebraico è stata un’avventura che ha attraversato tutta la storia dell’ebraismo, dalla vita quotidiana del popolo d’Israele, all’interpretazione del testo,  alla mistica  e alla qabbalà. Afferma Paolo De Benedetti che l’alfabeto ebraico, oltre che foneticamente, bisogna conoscerlo anche visivamente (p.14) e che esso non è soltanto un sistema di segni  per scrivere le parole, ma  ha anche un profondo senso teologico. Per i maestri d’Israele l’importanza dell’alfabeto è talmente grande che, secondo un antico midrash, le ventidue lettere (tutte consonanti) sono una delle cose create da Dio il venerdì sera, pochi istanti prima che cominciasse lo shabbat. A tale riguardo, afferma De Benedetti: “ Vorrei aggiungere anche che la creazione comprende due momenti non raccontati nel capitolo primo della Genesi: uno è appunto quello del venerdì sera tardi, l’altro invece riguarda le cose che Dio ha creato prima di plasmare il mondo. Prima ho attribuito la creazione delle lettere a questo momento più antico, e non escluderei che pure qualche maestro le collocasse lì. Non intendo allargare il discorso, però voglio affermare che, prima di creare il mondo, Dio ha creato il pentimento. [….] Non garantisco di ricordarmi se c’è un luogo dell’immensa letteratura esegetica in cui l’alfabeto viene anticipato ancora, però mi piacerebbe ci fosse e credo che l’alfabeto e il pentimento abbiano qualche parentela. [….] Il pentimento ristabilisce un ordine interno o esterno, e per me le lettere dell’alfabeto costituiscono un ordine. Se le lettere dell’alfabeto si scompigliassero, succederebbe qualche cosa di analogo a quello che produce il peccato quando scompagina l’ordine (pp. 18,19).
Veniamo ora al collegamento che ha l’alfabeto ebraico con la mistica e la qabbalà che come dice l’Autore, sono anch’esse forme di esegesi. Secondo De Benedetti, la mistica ha avuto due momenti storici importanti: il primo millennio e il secondo millennio. Le speculazioni della mistica si dividono in due scuole, la prima delle quali “ Opera del bereshit”, cioè del “Principio” della Genesi, della creazione, in ebraico “ma ‘asè bereshit”, è  detta mistica “discendente”. La seconda “opera del carro”, “ ma ‘asè merkavà”, che si rifà al primo capitolo di Ezechiele, è detta mistica “ascensionale”. Quando la Caramore, con precisione e acume, trascina l’Autore a parlare di questi argomenti, che ha sempre detto di non conoscere e frequentare, ci accorgiamo invece che a tutte le domande il professore sfodera una conoscenza immensa, e, sempre col suo modo di porsi, risponde alle complesse domande con altrettante articolato, articolate, erudite ed esaurienti risposte. E’ noto che la mistica non ha avuto presso il rabbinato italiano, nella sua lunga storia, vita facile, ma pochi sanno che fu Giulio Busi[3], durante i suoi anni di studio e di ricerca presso tutti gli archivi delle comunità italiane e straniere, a scoprire in Russia e a Gerusalemme, per puro caso, che uno dei centri più importanti dello studio della mistica e della qabbalà in Italia fu Reggio Emilia tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento e uno dei suoi massimi esponenti fu Anania Coen,  editore e letterato ebreo di quella comunità. L’ultimo grande studioso di mistica e qabbalà del rabbinato italiano fu Elia Benamozegh (1822 – 1900), il grande Rabbino di Livorno, che per pubblicare i suoi studi è dovuto andare in Francia,  ed ebbe contro anche uno dei più grandi pensatori ebrei del momento, Samuel David Luzzatto (1800 – 1865). La disputa, a mio parere non risolta, è durata sino alla morte del professore padovano ed  ha arrecato grandissimi danni alla cultura ebraica italiana.
E’ bellissima la pagina dove la Caramore ricorda un racconto tratto dal libro di Buber Racconti dei chassidim della Garzanti uscito nel 1988, racconto riferito al Baal Shem, che in viaggio verso Israele con sua figlia e il segretario, vicino ad Istanbul sbarcati su un’isola, sono fatti prigionieri dai pirati. Alla domanda perché non faccia nulla per salvarli, il Baal Shem risponde al segretario di non ricordare più nulla, di aver perso ogni facoltà, e gli chiede se ricorda qualcosa di quanto gli ha insegnato. Il segretario gli risponde che l’unica cosa che gli è rimasta impressa è l’alfabeto, al che il maestro lo esorta a recitarglielo affinché anche lui possa impararlo, insieme iniziarono a recitare l’alfabeto con fervore, e tutto si risolse. Conclude De Benedetti: “ Tutte le preghiere infatti sono fatte delle ventidue lettere dell’alfabeto e io credo che se noi recitiamo a Dio l’alfabeto con kawwanà (intenzione, direzione verso Dio), egli lo gradisca come tante preghiere insieme”(pp.36,37).
Nel libro c’imbattiamo ancora una volta in uno degli argomenti più cari a De Benedetti,  cioè la pluralità di sensi della Parola detta da Dio, i settanta sensi, questo perché la parola ha un senso che è rivolto ad ognuno di noi, in ogni generazione. Perciò afferma De Benedetti:”La verità è una solo in Dio. Io non posso pretendere, qualunque sia la mia autorità nella religione, che il significato della parola sia quello che dico io. Ce ne sono, ripeto, 70. E 70 è un numero multiplo di 7, corrispondente alla lettera ‘ajin, come vedremo poi, che indica quasi la totalità: “i 70 popoli della terra”, “le 70 lingue del mondo” e così via” (pp.55,56). Ma, aggiungo io, come ci ha sempre insegnato Paolo De Benedetti, esiste il settantunesimo senso, quello che può essere rivelato ad ognuno di noi e ad ogni uomo in tutte le generazioni, e come scrive Gianpaolo Anderlini[4]: “quello è il nostro senso, il volto di Dio che riusciamo a scoprire coi nostri occhi, con le nostre orecchie, e con le nostre mani tra gli spazi bianchi e le lettere nere del testo letto, interpretato e vissuto. E forse (ne sono certo), c’è anche un settantaduesimo senso, quello che non può essere disvelato qui ed ora a nessuno e da nessuno. E’ il senso che riusciremo a cogliere e ad intendere solo nel “’olam ha-ba’” il  mondo a venire, quando al cospetto del Santo benedetto egli sia, potremo discutere con lui ed apprendere da lui, il Maestro che da sempre ci attende, quei sensi della Parola che la nostra miopia e la nostra limitatezza non ci hanno permesso di scoprire”. Perciò se nel Testo Sacro non c’è un unico senso, un senso definito, dobbiamo ringraziare Paolo De Benedetti, che come ha fatto con tutte le “perle” precedenti, anche con questo libro ci stimola a continuare la ricerca di quel “Settantunesimo” senso della scrittura, che ognuno di noi può trovare nello studio della Parola del Santo benedetto egli sia.

                                                              Luigi Rigazzi















[1] Breve spiegazione delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, www.cabala.org
[2] Aa.Vv., Bereshit Rabbà, UTET, Torino,1978, pp, 34,36.
[3] Giulio Busi, Anania Coen.  Editore e letterato ebreo tra Sette e Ottocento, Fattoadarte, Bologna, 1992.
[4] Gianpaolo Anderlini, In Principio, Novellara, (RE), 15.12.010, p, 2.

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