lunedì 27 febbraio 2012

COMMENTO A GENESI




Presentazione di Gianpaolo Anderlini
In principio

Interpretatio infinita est!

(G. Scoto).

Si racconta che RASHI (acronimo per indicare Rabbi Shlomò ben Jitschàq), il più grande e versatile commentatore dell’ebraismo medievale, non facesse di professione l’esegeta e non vivesse dello studio della Torà, ma avesse un’occupazione mondana alla quale dedicarsi e dalla quale trarre di che vivere lui e la sua famiglia. La tradizione vuole, infatti, che Rashi di Troyes, nella zona che darà vita allo champagne, fosse un vignaiolo o, forse, un commerciante di vino.
Questo ci insegna che (almeno secondo uno dei tanti rami della tradizione ebraica) non bisogna fare delle Parola di Dio e della sua interpretazione una professione, perché Dio è un fuoco che divora ed la sua Parola è fonte di vita e, di conseguenza, va trattata come una cosa santa, dono di Dio, il Santo, dalla quale non si può trarre alcun profitto materiale e della quale nemmeno si può farsene un vanto. Inoltre, chi si dedica esclusivamente allo studio della Parola di Dio rischia di perdere il contatto con la realtà di questo mondo, nel quale la parola necessariamente deve essere compiuta ed incarnata, e di imporre agli altri un pesante giogo che la Parola non vuole e non deve imporre.
Questo insegna anche a noi, moderni amanti dell’iperspecializzazione settoriale e delle risposte affidate a coloro che riconosciamo esperti, che non dobbiamo affidarci, per quanto riguarda la Parola di Dio e la fede, a chi fa di quella Parola una professione. Chi lo fa, infatti, rischia di avere lo sguardo corto.
L’esegeta vede la Parola come testo del quale vanno individuati i tatti specifici da analizzare in modo “scientifico” (il metodo storico-crtitico) e, così facendo, confina la forza della Parola in un orizzonte storico e lettrario delimitato che non lascia più risuonare l’eco della prorompente voce del Sinài.
Il teologo fa della Parola uno strumento subordinato (ancillare) che deve fornire l’appoggio, non sempre necessario, per sostenere la sua visione di Dio e il castello delle sue riflessioni, figlie più del sistema culturale che della cogenza della Parola stessa.
Il cristiano legge ed interpreta la Parola partendo da una precomprensione che non gli permette di cogliere la forza e la pienezza della lettura di altre tradizioni; lo stesso fa l’ebreo che approccia la Torà per farla ed ascoltarla, secondo quanto detto in Esodo 24,7, e riconosce solo alle
parole dei Maestri, ovvero: alla Torà orale, la via di accesso al compimento e all’interpretazione dei precetti.
Ma la Parola di Dio, una volta detta dall’Altissimo, ascoltata ed accolta dall’uomo, ha una forza travolgente che non può essere contenuta in nessuno studio esegetico, in nessun sistema teologico, in nessuna tradizione. La Parola di Dio , come ci insegna la tradizione ebraica, ha settanta sensi, ossia: infiniti significati; anzi ne ha settantuno, perché c’è un senso che può essere rivelato solo da ognuno di noi e da ogni uomo in ogni generazione. E’ il nostro senso, il volto di Dio che riusciamo a scoprire coi nostri occhi, con le nostre orecchie e con le nostre mani tra gli spazi bianchi e le lettere nere del testo letto, interpretato e vissuto. E, forse (ne sono certo), c’è anche un settantaduesimo senso, quello che non può essere disvelato qui ed ora a nessuno e da nessuno. E’ il senso che riusciremo a cogliere e ad intendere solo nel mondo a venire, quando, al cospetto del Santo benedetto egli sia, potremo discutere con lui ed apprendere da lui, il Maestro che da sempre ci attende, quei sensi della Parola che la nostra miopia e la nostra limitatezza non ci hanno permesso di scorgere.
Il libro di Luigi Rigazzi “E Dio disse … Un commento alla Genesi” ci apre il settantunesimo senso, quello che l’autore ha cercato e trovato nel suo cammino di studio e di ricerca, e, forse, ci lascia intravedere un riflesso di quel settantaduesimo senso che può essere detto solo “dalla bocca dei bambini e dei lattanti” (Sal 8,2), cioè da chi si dichiara discepolo e non maestro e da chi è pronto a dare tutto per vivere solo di Parola di Dio, come il lattante che sugge il latte dal seno provvido della madre.
Due sono gli elementi di fondo che fanno del libro una continua apertura di senso: il primo è il raccontare Dio, l’uomo, la storia e il mondo; il secondo, l’imparare da tutti.
Il primo elemento è definito con chiarezza da Paolo De Benedetti nella prefazione:
"Rabbi Israele di Rizin raccontava: '... Tutti gli scolari di mio nonno, il Grande Magghid, insegnavano in suo nome, salvo Rabbi Sussja. Questo dipendeva dal fatto che Rabbi Sussja non aveva forse mai ascoltato fino in fondo un discorso del maestro. Perché al principio del discorso, quando il Magghid leggeva il passo della santa Scrittura che voleva spiegare, e cominciava con le parole della Scrittura «E Dio disse», Rabbi Sussja era subito rapito fuori di sé, e gridava e si muoveva così selvaggiamente che disturbava la tavolata e bisognava condurlo fuori. Allora stava nell'ingresso o nella legnaia, batteva contro le pareti e gridava: «E Dio disse!» Si calmava soltanto quando mio nonno cessava di spiegare la Scrittura'" (Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Guanda, Parma 1992, p. 214). Rabbi Sussja, in realtà, aveva capito con tutto se stesso che cosa significasse l'aprir bocca da parte di Dio: la creazione del mondo, e anche il racconto di tale creazione. Tutto questo si trova nella prima pagina della Genesi, nella quale vediamo prender forma, contemporaneamente, tre realtà concatenate e indivisibili: il manifestarsi di Dio come parola, la sua decisione di crearsi un "tu" che è appunto il mondo, e, infine e prima di tutto, l'identificazione della storia di Dio con il racconto .*…+. Ma il racconto biblico (che per un credente è considerato parola di Dio) deve essere continuamente di nuovo raccontato, perché ogni generazione ascolta la Parola secondo le proprie orecchie: è questa la vitalità perenne di quella Sacra Scrittura che ebraicamente è meglio chiamata Sacra Lettura. Quando, dopo l'esilio babilonese, la Bibbia -a cominciò a prender forma e la Genesi uscì dalla sua preistoria orale e divenne libro, ebbe inizio, se così si può dire, il racconto del racconto, cioè il racconto (con relativi commenti, interpretazioni, traduzioni) del libro. *…+ Non saranno mai abbastanza numerosi i mediatori di questa impresa, che richiede una conoscenza sempre nuova dei loro lettori/ascoltatori. Il libro di Luigi Rigazzi, in questo orizzonte acustico-visivo (nel senso che nasce da lezioni "dette" e si offre ora come lettura), ha una sua rara originalità, perché non perde mai di vista un pubblico non accademico, e nello stesso tempo è nutrito di una aggiornatissima conoscenza esegetica ed ermeneutica. Che è l'unico modo per non tradire il significato del "dire di Dio", da intendersi qui in due sensi ineliminabili dal testo, ossia parlare di Dio e ascoltare Dio che parla. Mi pare che questa apparente e necessaria ambiguità sia salvata fino in fondo dall'autore [...]” (pp. 6-7).
La formula “E disse Dio…”, utilizzata otto volte a nel primo racconto della creazione e posta significativamente a titolo del libro, in ebraico è  wajjòmer, che indica l’atto del dire e può essere interpretato in questo modo: “Dio aprì la bocca e cominciò ad articolare suoni dicendo”. E’, cioè, l’atto allocutorio, suono articolato in una lingua per la prima volta, che sì fa parola ordinatrice e creatrice e diviene memoria e racconto. E il fatto che la Bibbia inizi col racconto ci mostra che ci deve sempre essere un parlare e un ascoltare, un trasmettere e un ricevere, che, di generazione in generazione, di uomo in uomo, si adegua alle domande e prova ad abbozzare timidamente le risposte, ossia: racconta il racconto.
L’uomo, di fronte alla Parola, non può limitarsi ad ascoltare Dio che parla, ma deve, necessariamente, secondo la via della tradizione cristiana, parlare di Dio e, secondo la via tracciata dalla tradizione ebraica, parlare a Dio. E ciò può avvenire non nell’immediatezza dell’ascolto, ma nella lunga e difficile via di ricerca, di studio e di riflessione su quella Parola che una volta detta da Dio non è più nei cieli, ma è qui vicina a noi, sulla nostra bocca e nel nostro cuore, come è detto:
“11 Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. 12 Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? 13 Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? 14 Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.” (Dt 30,11-14).
Ed una volta nostra (sulla nostra bocca e nel nostro cuore), perché ascoltata ed accolta, quella Parola va intesa, compresa e interpretata utilizzando tutti gli strumenti necessari, anche quelli esegetici o scientifici o teologici o mistici, per dare voce a quella Voce che ora parla solo tramite noi, nelle nostre parole e nelle nostre azioni. E Luigi Rigazzi, nell’accogliere il giogo della Parola, ha preso su di sé l’onere del raccontare per fare uscire quella Voce (la voce del Sinài, direbbero gli ebrei) dal silenzio e per dare ad altri la possibilità di continuare ad ascoltare e a raccontare.
Il secondo elemento di fondo, l’imparare da tutti, è esplicitato, come dichiarazione programmatica, nella citazione posta in esergo all’opera:
“Ben Zoma’ dice: Chi è sapiente? Chi impara da tutti gli uomini, come è detto: "Ho appreso da chiunque mi abbia insegnato’ (Sal 119, 99)” (Pirqè Avot IV,1).
Ben Zoma’, con queste parole profonde ed aperte, sembra commentare un noto passo del profeta Geremia: “Il sapiente non di vanti della sua sapienza, il forte non si vanti della sua forza e non si vanti il ricco della sua ricchezza” (Gr 9,22). La vera sapienza, la vera forza e la vera ricchezza è conoscere Dio e le sue vie; e in questo cammino, di ascolto e di conoscenza, è necessario porsi in ascolto di tutti coloro che hanno, con le loro parole, con i loro studi e con la loro vita, qualche frammento o qualche scintilla di senso da insegnarci. In ascolto di tutti, nessuno escluso, sia egli credente o non credente, sia egli cristiano o ebreo o semplicemente amante di quella Parola, sia egli esegeta, teologo, mistico o semplicemente uno che prosegue quel racconto mai finito; sia egli vicino o lontano, nello spazio e nel tempo. Chiunque, nel nostro cammino, può esserci maestro; ma lo può essere solo se con umiltà siamo pronti a riconoscerlo e ad ascoltarlo.
E’ l’atteggiamento, come quello di Luigi Rigazzi, di chi non chiude le porte del testo e dell’interpretazione, ma le lascia aperte, pronto ad accogliere la voce di tutti, i loro stimoli ed anche i loro errori, perché nulla , nel piano di Dio, è inutile e perché la sua Parola cresce con chi la legge, la studia e la vive.
C’è sempre un’altra parola, ossia un’altra interpretazione, che ci attende, non per insinuare in noi il dubbio, ma per aprirci porte del testo, sensi della Scrittura, volti di Dio che da soli non saremmo in grado di scorgere e di individuare.
E’ per questo che di fronte alla Scrittura nessuno deve vantarsi della propria sapienza o può dichiarare vana la linea di lettura di altri uomini o di altre tradizioni; ed è per questo che è, come Luigi Rigazzi, vero sapiente colui che sa accordare la propria voce al coro delle voci di coloro che
continuano, ieri come oggi, a raccontare quel racconto e a dire di Dio, con perseveranza, profondità e amore.
E’ per questo che, al cospetto della Scrittura, solo chi accetta il principio ermeneutico, definito nella tradizione ebraica davàr achèr, “altra parola, altra interpretazione”, può definirsi sapiente, perché pronto ad imparare da tutti.
Cerchiamo, allora, di cogliere nel libro di Luigi Ragazzi quei volti che ci mostrano la via della sapienza aperta e offerta agli altri, come parola altra che ci obbliga ad ascoltare e continuare con lui o dopo di lui il racconto.
Primo volto. Leggere la Scrittura ebrei e i cristiani assieme, nella reciproca differenza e nella distanza che ci unisce perché ci fa testimoni, per vie diverse di volti dello stesso Dio, il Dio Uno. Questa apertura percorre il libro dalla prima pagina all’ultima e ci mostra che non c’è una lettura cristiana della Scrittura che annulla o supera quella ebraica e che non c’è una lettura cristiana che può fare a meno della lettura ebraica. L’una e l’altra, nell’alveo delle rispettive tradizioni, sono parola del Dio vivente e come tali vanno accolte.
Scrive Luigi Rigazzi in una delle prime pagine de commento: “Il significato della Genesi per l’ebreo e per il cristiano è appunto quello di interrogare i tempi antichi: “Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da una estremità dei cieli all’altra” (Dt 4,32)” (p.31).
L’interrogare è un porre le domande (in ebraico: sha’al) a cui né il cristiano né l’ebreo possono sottrarsi, perché ne va della loro vita, delle loro scelte e della loro fede. E la prima risposta è che l’uomo deve, in ogni condizione, cercare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima (Dt 4,39), secondo il cammino indicato prima nella Torà (cioè nei primi cinque libri della Bibbia) e poi in tutta la Scrittura, secondo il canone ebraico e i canoni cristiani.
Se è vero, come scrive l’Autore nella Premessa, che “il libro della Genesi intende in tal modo offrire una visione del rapporto dell’uomo con Dio e di Dio con l’uomo attraverso la storia” (p. 9), dobbiamo riconoscere che fin dal principio il mondo creato e le vicende dell’uomo sono incamminati, secondo il piano di Dio, verso una redenzione che esige la partecipazione attiva dell’uomo, chiamato a scegliere fra il bene e il male, nella certezza che Dio è fedele e misericordioso, pronto a volgere, a dispetto di quanto opera l’uomo, il male in bene.
Secondo volto. In ascolto d’Israele. E’ un cammino difficile ma necessario per un cristiano o per chi proviene dalla tradizione cristiana o ad essa si richiama. Abbeverarsi alla fonte dell’hebraica veritas non implica solo un ritorno al testo della Scrittura in lingua ebraica, oltre la Vulgata latina o la Bibbia in greco dei LXX, ma richiede anche di ascoltare, con rispetto, la lettura ebraica della Scrittura, secondo le regole ermeneutiche ed esegetiche che le sono proprie. Così facendo si scopre che la fiamma della fede d’Israele, nella prassi e nello studio, illumina la Scrittura e ci mostra quei sensi che la lettura cristiana o altra non possono cogliere.
Vediamo alcuni esempi.
Il primo all’atto della cacciata di Adamo ed Eva dal Gan Eden, ovvero dal Paradiso terrestre (Gn 3,20-24): “L'uomo impone il nome alla sua donna; 'Eva, Chawwah' che significa 'la vivente '. Il versetto sembrerebbe qui fuori luogo; perché Eva è un titolo altamente onorifico e perciò non rientra più sotto la maledizione. Questo è un segno positivo e di speranza; l'uomo e la donna non sono morti; si intuisce l'intenzione divina di non abbandonarli: infatti, scacciandoli dal giardino di Eden, Dio fa loro due tuniche di pelle e li veste. Il 'targum’(In realtà il passo di riferimento è Bereshit Rabbà 20,12), traduce 'tuniche di luce’, quasiché l’umanità potesse relazionarsi ancora con il suo creatore, nonostante il peccato” (pp. 50-51).
Senza entrare nella complessa interpretazione di Gn 3,21 nella tradizione ebraica, la lettura proposta, “tuniche di luce”, ovvero uno degli infiniti sensi della Scrittura, ci offre una prospettiva non di abbassamento della condizione umana, ma di dignità quasi regale. La caduta non cancella le caratteristiche creaturali dell’uomo, fatto ad immagine e secondo la somiglianza di Dio, le modifica sostituendo alla nudità non percepita una veste che differenzia definitivamente l’uomo dagli altri esseri viventi e che gli conserva quella dignità capace di rapportarlo con Dio e con il mondo.
Il secondo esempio è legato a Caino e in particolare a Gn 4,10: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”. Così commenta l’Autore: “Nel testo ebraico il sangue è al plurale: ‘i sangui’. La tradizione ebraica intende questo plurale nel senso che quando si uccide un uomo si uccide non solo quell’uomo, ma tutta la sua progenie, che non potrà più nascere, perciò ‘chi uccide un uomo uccide un mondo, chi salva un uomo salva un mondo (Sanhedrin IV)” (pp 53-54).
Se diamo voce al commento di Rashi, diviene evidente la forza di questo passo:  In realtà il passo di riferimento è Bereshit Rabbà 20,12.
 רש"י בראשית פרק ד פסוק י
)י( דמי אחיך - דמו ודם זרעיותיו. דבר אחר שעשה בו פצעים הרבה שלא היה יודע מהיכן נפשו יוצאה:
“I sangui di tuo fratello – si tratta del sangue suo (= Abele) e di tutti i suoi discendenti.
Altra interpretazione. Vuole significare che gli fece molte ferite perché non sapeva da dove la sua anima sarebbe uscita.”
La traduzione in lingua italiana, “il sangue di tuoi fratello”, non rende la pregnante profondità del testo. Solo ritornando alle parole ebraiche si può iniziare a cogliere quei settanta significati che la Scrittura contiene. “I sangui”, al plurale in ebraico, sottintendono una pluralità di sangue versato: quello di un uomo e di tutta la discendenza che da lui deriva e dipende. Pertanto l’uccisione di Abele cancella infinite vite possibili, mondi interi e quei sangui versati ci chiedono il rispetto della vita, di ogni vita.
Un terzo esempio ancora: Gn 29,31, ovvero la fecondità di Lia, la trascurata. Queste le parole del commento di Luigi Rigazzi: “Giacobbe non riuscirà a evitare la rivalità, le invidie, le gelosie tra le mogli, che saranno causa di sofferenze: è forse rifacendosi a questa storia che verrà poi abolita la poligamia in Israele. Dio interviene a consolare la trascurata, o secondo una traduzione più esatta l'odiata;,e la rende feconda, anche qui secondo una traduzione più esatta' aprì il suo utero’, si potrebbe ricordare in I proposito l'affermazione del 'talmud' che Dio ha nelle sue mani tre chiavi: con una apre il grembo delle donne sterili, con una apre la terra e il cielo per far nascere le piante e far cadere la pioggia, con la terza apre le tombe per far risuscitare i morti. Un midrash afferma addirittura che tutte le matriarche di Israele sono sterili, e soltanto dopo l'intervento divino a loro è consentito concepire: questo per dimostrare che la storia del popolo eletto è guidata da Dio e dipende soltanto dalla sua volontà.” (pp. 143-144).
La tradizione ebraica segue percorsi interpretativi che scavano in profondità nel testo ed in particolare utilizza un’esegesi narrativa che racconta, a partire da quelle parole, quello che il testo vuole insegnarci o quello che dal testo è possibile fare emergere. Ecco allora il midrash delle tre chiavi e quello della sterilità delle matriarche d’Israele, l’uno e l’altro “raccontati” per insegnarci che tutto è nelle mani di Dio, utilizzando non la sapienza popolare ma la forza che si sprigiona dalla Parola rivelata.
Terzo volto. La parola del Primo Testamento letta e reinterpretata dalla parola del Secondo Testamento e dalla tradizione cristiana. E’ questa, forse, la parte più ricca del commento alla Genesi del nostro Autore, anche perché il commento nasce in ambito cristiano e rivolto a cristiani.
Un primo esempio. Il Secondo testamento riempie un vuoto del racconto del Primo testamento. E’ il caso della spiegazione del motivo del rifiuto da parte di Dio dell’offerta di Caino: “Il testo non ci dice i motivi di questo rifiuto: bisogna aspettare il N.T.per trovare un tentativo di spiegazione " Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino ed in base ad essa fu dichiarato giusto, attestando Dio stesso di gradire i suoi doni; per essa, benché morto, parla ancora” (Eb. 11,4); e "Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello. E per qual motivo lo uccise? Perché le opere sue erano malvage, mentre quelle di suo fratello erano giuste". (1Gv 3,12)” (p.53)
L’offerta di Abele è fatta per fede e il suo operare si pone nella linea della testimonianza data dagli antichi che hanno agito ed operato per fede: Henoc, Noè, Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, fino al Cristo che è autore e perfezionatore della fede.
E ancora: Abele è giusto mentre Caino è malvagio. Prima del sacrificio, vi sono le disposizioni d'animo di Caino e Abele: il primo diventa il prototipo del malvagio, il secondo rappresenta la figura del giusto, che prefigura il Giusto, ovvero il Cristo, «Mediatore della Nuova Alleanza», il cui sangue è «più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24).
E così si affaccia la lettura tipologica propria della lettura cristiana della Scrittura: il sacrifico di Abele è figura del sacrificio di Cristo.
Un secondo esempio. Il Primo testamento illuminato dal Secondo, ossia: la lettura tipologica. Vediamo come il diluvio e l’arca rientrino in questo tipo di lettura: “Tipologia cristologica, è la lettura che ne ha fatto la chiesa sin dal suo nascere, come con Noè nasce una nuova generazione, con Gesù si rinnova l'umanità. Tipologia ecclesiale, l'arca, mezzo di salvezza, prefigura la chiesa. L'acqua del diluvio è figura del battesimo, se leggiamo Eb 11,7 "Per fede Noè, avvertito divinamente di cose che ancora non si vedevano, costruì con pio timore un'arca a salvezza della sua famiglia,' e per questa fede condannò il mondo e divenne erede della giustizia secondo la fede". Ora ascoltiamo una delle preghiere che accompagnano la consacrazione dell'acqua battesimale che recita "O Dio, che lavando per mezzo delle acque i delitti di un mondo colpevole, hai purificato nel riversarsi del diluvio la rigenerazione, affinché per il mistero di un solo elemento si avesse la fine per i vizi e l’origine per le virtù” (pp. 66-67).
Come insegna S. Agostino: “Novum in vetere latet et vetus in novo patet” e questo rende possibile la lettura tipologica, secondo la modalità interna del Secondo Testamento. Scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: “Ora, fratelli, non voglio che ignoriate che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola e tutti passarono attraverso il mare, 2 tutti furono battezzati per Mosé nella nuvola e nel mare, 3 tutti mangiarono il medesimo cibo spirituale, 4 e tutti bevvero la medesima bevanda spirituale, perché bevevano dalla roccia spirituale che li seguiva; ora quella roccia era Cristo.” ( 1Cor 10,1-4)
Un esempio classico di metodo tipologico interno alla Scrittura lo abbiamo in Gv 3,14 ove Gesù, che è colui che apre le Scritture, dice a Nicodemo: “Come Mosè alzò il serpente nel deserto, così conviene che il Figlio dell’uomo - egli stesso - sia innalzato”. In questo versetto il serpente (Num 21,9) si configura come 'tipo’ prefigurativo di Gesù che risulterebbe a sua volta 'antitipo’ del serpente. Tipo ed antitipo sono i due elementi corrispondenti, l’uno nel Primo Testamento e l’altro nel Secondo; il primo è anticipazione ed il secondo è la sua realizzazione.
C’è, dunque, una via cristiana di lettura della Scrittura che non può essere abbandonata, in quanto ha il suo fondamento nel Secondo Testamento, nella liturgia della Chiesa antica e, poi, nell’insegnamento dei Padri della Chiesa (ampiamente citati nel commento di Luigi Rigazzi).
Va, però, precisato che la lettura cristiana tipologica non annulla la lettura ebraica del Primo Testamento, come è detto con chiarezza nei Sussidi (II, 6-7, Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell'Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo 24 giugno 1986) :
“6. È dunque vero ed è bene sottolinearlo, che la Chiesa e i cristiani leggono l'Antico Testamento alla luce dell'avvenimento del Cristo morto e risorto e che, a questo titolo, esiste una lettura cristiana dell'Antico Testamento che non coincide necessariamente con la lettura ebraica. Identità cristiana e identità ebraica devono pertanto essere accuratamente distinte nella loro rispettiva lettura della Bibbia. Ciò che, tuttavia, nulla sottrae al valore dell'Antico Testamento nella Chiesa e non vieta che i cristiani possano a loro volta utilizzare con discernimento le tradizioni di lettura ebraica.
7. La lettura tipologica non fa altro che manifestare le insondabili ricchezze dell'Antico Testamento, il suo contenuto inesauribile, il mistero che lo pervade, ed essa non deve far dimenticare che l'Antico Testamento mantiene il proprio valore di Rivelazione, che spesso il Nuovo Testamento non farà che riprendere (cf. Mc 12,29-31). Del resto, lo stesso Nuovo Testamento esige parimenti di essere letto alla luce dell'Antico. La catechesi cristiana primitiva vi farà costantemente ricorso (cf. ad es. 1Cor 5,6-8; 10,1 - 11)".
Quarto volto. L’esegesi scientifica e la teoria delle fonti.
Chiunque si avvicini, oggi, alla Genesi non può non riconoscere il cammino dell’esegesi moderna, in particolare la teoria delle fonti, che ci permette di cogliere in profondità la struttura del testo e di fare emergere nuovi sensi che non erano percepibili sena gli strumenti del metodo storico-critico. Fra le tante vi cito una stupenda pagina del libro, che ci presenta lo svilluppo storico e teologico delle fonti: jahvista, elohista, sacerdotale.
“Nel X secolo a.e.v, lo jahwista teologo della corte di Gerusalemme (regno di Salomone), ha interpretato le tradizioni patriarcali in modo da mostrare che la regalità davidica era il compimento finale elle promesse fatte ai padri. Nel'VIII secolo a.e.v.,dopo la divisione del regno in due stati indipendenti, un teologo del nord (elohista), ha attualizzato le stesse tradizioni, ma in un contesto sociale completamente diverso, perché egli deve combattere la religione cananea, che minacciava l'esistenza stessa della religione del Dio Unico. Nel VI secolo a.e.v., durante l'esilio in Babilonia, teologi giudei (sacerdotale), hanno interpretato le storie dei patriarchi attualizzandole in base alla loro situazione, per dare coraggio e rianimare i loro compagni di prigionia e prepararli al ritorno in patria. Questo bisogno di attualizzazioni continue e sempre nuove delle stesse tradizioni antiche, è proprio del 'genere omiletico '. La necessità di attualizzare ogni volta tradizioni antiche in situazioni in continuo mutamento e trasformazione è stata resa possibile grazie a questi grandi maestri e teologi: lo jahwista, l'elohista ed il sacerdotale. I patriarchi sono soltanto modelli da seguire, da imitare, perché testimoni di una 'parola-promessa' di Dio, che ha valore anche per chi ascolta oggi. Dei patriarchi la Bibbia non fa una 'biografia storica' che si può ricostruire in parte con le indagini scientifiche oggi a disposizione della storiografia moderna, ma fa una 'biografia sacra' il cui solo scopo è di proprre dei personaggi ritenuti 'modello di vita' per l'oggi, perché loro si sono messi all'ascolto di Dio, ed hanno accettato i suoi dettati senza porsi domande.” (pp. 83-84).
Penso che in nessun testo introduttivo alla Genesi o al Primo Testamento sia possibile trovare una più precisa e stimolante sintesi della storia delle fonti, che così spiegata non è archeologia del testo o frammentazione dell’unità della redazione finale, ma diviene una possibilità in più che ci viene offerta per fare della parole la Parola.
In conclusione, se è vero, come afferma Origene, che “Non c’è nella Bibbia un senso definito una volta per tutte”, dobbiamo ringraziare Luigi per averci offerto questo libro che è uno stimolo ad ognuno di noi per iniziare o continuare il cammino nella ricerca di quel settantunesimo senso della Scrittura, che è quel senso che ci attende se decidiamo di fare della Scrittura, nella vita e nello studio, la fiaccola che illumina la nostra via.







Prefazione

 “Rabbi Israele di Rižin raccontava: ‘… Tutti gli scolari di mio nonno, il Grande Magghid, insegnavano in suo nome, salvo Rabbi Sussja. Questo dipendeva dal fatto che Rabbi Sussja non aveva forse mai ascoltato fino in fondo un discorso del maestro. Perché al principio del discorso, quando il Magghid leggeva il passo della santa Scrittura che voleva spiegare, e cominciava con le parole della Scrittura «E Dio disse», Rabbi Sussja era subito rapito fuori di sé, e gridava e si muoveva così selvaggiamente che disturbava la tavolata e bisognava condurlo fuori. Allora stava nell’ingresso o nella legnaia, batteva contro le pareti e gridava: «E Dio disse!» Si calmava soltanto quando mio nonno cessava di spiegare la Scrittura’” (Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Guanda, Parma 1992, p. 214). Rabbi Sussja, in realtà, aveva capito con tutto se stesso che cosa significasse l’aprir bocca da parte di Dio: la creazione del mondo, e anche il racconto di tale creazione. Tutto questo si trova nella prima pagina della Genesi, nella quale vediamo prender forma, contemporaneamente, tre realtà concatenate e indivisibili: il manifestarsi di Dio come parola, la sua decisione di crearsi un “tu” che è appunto il mondo, e, infine e prima di tutto, l’identificazione della storia di Dio con il racconto. E’ profondamente vero, perciò, il titolo che Brunetto Salvarani ha dato a un suo commento biblico: In principio era il racconto. Ma il racconto biblico (che per un credente è considerato parola di Dio) deve essere continuamente di nuovo raccontato, perché ogni generazione ascolta la Parola secondo le proprie orecchie: è questa la vitalità perenne di quella Sacra Scrittura che ebraicamente è meglio chiamata Sacra Lettura.Quando, dopo l’esilio babilonese, la Bibbia cominciò a prender forma e la Genesi uscì dalla sua preistoria orale e divenne libro, ebbe inizio, se così si può dire, il racconto del racconto, cioè il racconto (con relativi commenti, interpretazioni, traduzioni) del libro. Un’avventura che dura tuttora e durerà sempre, e che impegna sia a livello religioso, sia a livello scientifico, sia a livello letterario e artistico. Non saranno mai abbastanza numerosi i mediatori di questa impresa, che richiede una conoscenza sempre nuova dei loro lettori/ascoltatori. Il libro di Luigi Rigazzi, in questo orizzonte acustico-visivo (nel senso che nasce da lezioni “dette” e si offre ora come lettura), ha una sua rara originalità, perché non perde mai di vista un pubblico non accademico, e nello stesso tempo è nutrito di una aggiornatissima conoscenza esegetica ed ermeneutica. Che è l’unico modo per non tradire il significato del “dire di Dio”, da intendersi qui in due sensi ineliminabili dal testo, ossia parlare di Dio e ascoltare Dio che parla. Mi pare che questa apparente e necessaria ambiguità sia salvata fino in fondo dall’autore, che ha pienamente realizzato quanto egli scrive all’inizio del suo commento: “Lo scopo della Genesi è quello di presentare l’uomo e la storia nel loro rapporto con Dio”; un rapporto che non ha mai fine, e quindi, paradossalmente, una Genesi che non ha mai fine.
                                                                                      
                                                                           Paolo De Benedetti




Premessa


Il presente lavoro deve la sua nascita alla richiesta di alcuni genitori della parrocchia di S. Prospero di Reggio Emilia, dove fui invitato nel febbraio del 2002 a tenere un corso biblico su ‘Genesi 1 – 50’. Inizialmente tale richiesta mi trovò disorientato, perché, sebbene da più di trent'anni mi interessi di studi biblici, di ebraismo e di ebraico, non mi ero mai cimentato a mettere i miei appunti per iscritto ad uso d'altri. Nonostante ciò accettai con entusiasmo, sapendo che sarei stato il primo a trarre beneficio da un tale impegno, e per circa un anno lavorai al progetto. Se ora nasce questo testo, di ciò devo ringraziare innanzi tutto Ivanna Rossi, che ha corretto le prime bozze del corso, Paolo De Benedetti e Sergio Caldarella, che avendo letto le dispense, mi hanno esortato, aiutandomi con consigli e suggerimenti, a trasformarle in un libro. Questo lavoro si rivolge in particolar modo a chi si avvicina per la prima volta alla Bibbia, e vuole iniziare un percorso di studio sistematico sul testo: avere i primi rudimenti storico-critici, scoprire la lettura della Genesi fatta dal Nuovo Testamento, dalla tradizione ebraica, e dai Padri della Chiesa, essere guidati a una lettura attualizzante del testo. Su Genesi esistono migliaia di testi, studiosi di tutte le generazioni si sono cimentati nel commento: ma, come dice De Benedetti, la Scrittura ha settanta sensi, anzi settantuno, perciò ognuno la recepisce secondo le sue conoscenze; infatti il testo è sempre aperto e pronto ad essere interrogato. La Genesi è stata posta all'inizio della Bibbia, proprio perché tratta delle origini; ma in realtà è la riflessione tardiva di un popolo che alla luce delle propria esperienza storica ripensa a come potrebbero essersi svolti gli eventi fin ‘dal principio’, meditando sulle proprie credenze e sulle riflessioni teologiche, nate dalla profonda fede in un ‘Dio Uno’. Il libro della Genesi intende in tal modo offrire una visione del rapporto dell'uomo con Dio e di Dio con l'uomo attraverso la storia.Le storie dei Patriarchi ed il ciclo di Giuseppe servono al redattore finale per gettare un ponte con l'Esodo e colmare, così, quel vuoto storico tra il soggiorno in Egitto dei figli di Israele e l'uscita da quel paese.



Reggio Emilia 30.06.07


                                                                                                Luigi Rigazzi




                                                                    GENESI


Genesi, ‘Bereshit’, ‘In Principio’, dalla parola iniziale del testo ebraico, primo libro del Pentateuco, comprende 50 capitoli ed è divisibile in tre parti:
1)     Storia primordiale biblica, creazione, peccato originale, caduta, Caino e Abele, diluvio e arca di Noè, Torre di Babele e dispersione dei popoli. Gen 1 - 11.
2)     Storia dei Patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe. Gen. 12 - 38.
3)     Storia di Giuseppe, la sua vendita come schiavo, la sua fortuna, discesa in Egitto di suo padre e dei suoi fratelli. Gen 39 - 50.
Redazione finale V secolo a.e.v.

 
La Creazione. Separazione.
Questo libro è stato posto all'inizio del testo biblico proprio perché è incentrato sul tema delle origini, ma in realtà è la riflessione più tardiva di un popolo, che, alla luce della propria esperienza storica, ripensa a come potrebbero essere andate le cose fin dal principio, meditando sulle proprie credenze e riflessioni teologiche e liturgiche nate dalla profonda fede nel Dio dei Padri. Lo scopo della Genesi è quello di presentare l'uomo e la storia nel loro rapporto con Dio. L'affermazione che Dio ha creato l'universo, ripetuta nel testo in maniera quasi ossessiva, si rivolgeva in forma polemica al mondo politeista dell'antico Vicino Oriente, e questa polemica presumeva il distacco totale da parte di Israele, nei confronti di queste religioni. Dal 587 a.e.v. Israele era in esilio in Babilonia, dove viveva come minoranza etnica e religiosa. I deportati si assimilarono rapidamente all'ambiente: ne avevano già assunto la lingua, come si deduce da una quantità di nomi babilonesi, ed era anche stato adottato il loro calendario. E' in questa situazione, lontani da Gerusalemme e dal tempio, che i deportati resistono all'assimilazione sul piano religioso, passando ad un ‘monoteismo assoluto’, eliminando ogni forma di ‘sincretismo’.[1] E' meraviglioso vedere come il piccolo Israele si sia preservato dagli insistenti influssi dei miti ‘cosmogonici e teogonici’ dell'ambiente in cui viveva.Nei miti della creazione del Vicino Oriente, il ‘caos primordiale’ viene personificato dalla divinità femminile Tiamat. Dopo l'uccisione di questa da parte del dio creatore Marduk, patrono di Babilonia (presso gli assiri questa operazione viene compiuta da Assur, patrono dell'Assiria), il cadavere viene diviso in due parti, una costituente il cielo, l'altra la terra: pertanto l'universo è il prodotto della spartizione di una divinità, perciò anch'esso divino. Nella tradizione sacerdotale (fonte P)[2] ciò non avviene, il cielo e la terra sono creati, quindi sostanzialmente diversi dal loro creatore, il quale come ha decretato la loro esistenza, può stabilirne anche la fine. Perciò quando il testo afferma la creazione divina, nega ogni forma di esistenza autonoma della creazione e delle creature: ambedue esistono soltanto in quanto creati ed in una relazione positiva con il loro Creatore





[1] Sincretismo. Fusione di più dottrine in una.
[2] Teoria delle fonti. Detta ipotesi < ipotesi documentaria >, il Pentateuco nasce dalla combinazione di quattro principali documenti , preceduti da tradizioni orali pre-letterarie, disposti nel seguente ordine cronologico non da tutti gli studiosi accettato: Jahvista ( J, secolo X ),Elohista ( E, secolo VIII), Deuteronomista ( D, o Dtn, secolo VII - VI ), Sacerdotale (P, secolo VI - V).





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