Presentazione di Gianpaolo Anderlini
In principio
Interpretatio infinita est!
(G. Scoto).
Si racconta che RASHI (acronimo per indicare Rabbi Shlomò
ben Jitschàq), il più grande e versatile commentatore dell’ebraismo medievale,
non facesse di professione l’esegeta e non vivesse dello studio della Torà, ma
avesse un’occupazione mondana alla quale dedicarsi e dalla quale trarre di che
vivere lui e la sua famiglia. La tradizione vuole, infatti, che Rashi di
Troyes, nella zona che darà vita allo champagne, fosse un vignaiolo o, forse,
un commerciante di vino.
Questo ci insegna che (almeno secondo uno dei tanti rami
della tradizione ebraica) non bisogna fare delle Parola di Dio e della sua
interpretazione una professione, perché Dio è un fuoco che divora ed la sua
Parola è fonte di vita e, di conseguenza, va trattata come una cosa santa, dono
di Dio, il Santo, dalla quale non si può trarre alcun profitto materiale e
della quale nemmeno si può farsene un vanto. Inoltre, chi si dedica
esclusivamente allo studio della Parola di Dio rischia di perdere il contatto
con la realtà di questo mondo, nel quale la parola necessariamente deve essere
compiuta ed incarnata, e di imporre agli altri un pesante giogo che
la Parola non vuole e non deve
imporre.
Questo insegna anche a noi, moderni amanti
dell’iperspecializzazione settoriale e delle risposte affidate a coloro che
riconosciamo esperti, che non dobbiamo affidarci, per quanto riguarda
la Parola di Dio e la fede, a
chi fa di quella Parola una professione. Chi lo fa, infatti, rischia di avere
lo sguardo corto.
L’esegeta vede
la
Parola come testo del quale vanno individuati i tatti
specifici da analizzare in modo “scientifico” (il metodo storico-crtitico) e,
così facendo, confina la forza della Parola in un orizzonte storico e lettrario
delimitato che non lascia più risuonare l’eco della prorompente voce del Sinài.
Il teologo fa della Parola uno strumento subordinato
(ancillare) che deve fornire l’appoggio, non sempre necessario, per sostenere
la sua visione di Dio e il castello delle sue riflessioni, figlie più del
sistema culturale che della cogenza della Parola stessa.
Il cristiano legge ed interpreta
la Parola partendo da una
precomprensione che non gli permette di cogliere la forza e la pienezza della
lettura di altre tradizioni; lo stesso fa l’ebreo che approccia
la Torà per farla ed ascoltarla,
secondo quanto detto in Esodo 24,7, e riconosce solo alle
parole dei Maestri, ovvero: alla Torà orale, la via di
accesso al compimento e all’interpretazione dei precetti.
Ma
la Parola
di Dio, una volta detta dall’Altissimo, ascoltata ed accolta dall’uomo, ha una
forza travolgente che non può essere contenuta in nessuno studio esegetico, in
nessun sistema teologico, in nessuna tradizione.
La Parola di Dio , come ci
insegna la tradizione ebraica, ha settanta sensi, ossia: infiniti significati;
anzi ne ha settantuno, perché c’è un senso che può essere rivelato solo da
ognuno di noi e da ogni uomo in ogni generazione. E’ il nostro senso, il volto
di Dio che riusciamo a scoprire coi nostri occhi, con le nostre orecchie e con
le nostre mani tra gli spazi bianchi e le lettere nere del testo letto,
interpretato e vissuto. E, forse (ne sono certo), c’è anche un settantaduesimo
senso, quello che non può essere disvelato qui ed ora a nessuno e da nessuno.
E’ il senso che riusciremo a cogliere e ad intendere solo nel mondo a venire,
quando, al cospetto del Santo benedetto egli sia, potremo discutere con lui ed
apprendere da lui, il Maestro che da sempre ci attende, quei sensi della Parola
che la nostra miopia e la nostra limitatezza non ci hanno permesso di scorgere.
Il libro di Luigi Rigazzi “E Dio disse … Un commento alla
Genesi” ci apre il settantunesimo senso, quello che l’autore ha cercato e
trovato nel suo cammino di studio e di ricerca, e, forse, ci lascia intravedere
un riflesso di quel settantaduesimo senso che può essere detto solo “dalla
bocca dei bambini e dei lattanti” (Sal 8,2), cioè da chi si dichiara discepolo
e non maestro e da chi è pronto a dare tutto per vivere solo di Parola di Dio,
come il lattante che sugge il latte dal seno provvido della madre.
Due sono gli elementi di fondo che fanno del libro una
continua apertura di senso: il primo è il raccontare Dio, l’uomo, la storia e
il mondo; il secondo, l’imparare da tutti.
Il primo elemento è definito con chiarezza da Paolo De
Benedetti nella prefazione:
"Rabbi Israele di Rizin raccontava: '... Tutti gli
scolari di mio nonno, il Grande Magghid, insegnavano in suo nome, salvo Rabbi
Sussja. Questo dipendeva dal fatto che Rabbi Sussja non aveva forse mai
ascoltato fino in fondo un discorso del maestro. Perché al principio del
discorso, quando il Magghid leggeva il passo della santa Scrittura che voleva
spiegare, e cominciava con le parole della Scrittura «E Dio disse», Rabbi
Sussja era subito rapito fuori di sé, e gridava e si muoveva così
selvaggiamente che disturbava la tavolata e bisognava condurlo fuori. Allora
stava nell'ingresso o nella legnaia, batteva contro le pareti e gridava: «E Dio
disse!» Si calmava soltanto quando mio nonno cessava di spiegare
la Scrittura'"
(Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Guanda, Parma 1992, p. 214). Rabbi
Sussja, in realtà, aveva capito con tutto se stesso che cosa significasse
l'aprir bocca da parte di Dio: la creazione del mondo, e anche il racconto di
tale creazione. Tutto questo si trova nella prima pagina della Genesi, nella
quale vediamo prender forma, contemporaneamente, tre realtà concatenate e indivisibili: il manifestarsi di Dio come parola, la sua
decisione di crearsi un "tu" che è appunto il mondo, e, infine e
prima di tutto, l'identificazione della storia di Dio con il racconto .*…+. Ma
il racconto biblico (che per un credente è considerato parola di Dio) deve
essere continuamente di nuovo raccontato, perché ogni generazione ascolta
la Parola secondo le proprie
orecchie: è questa la vitalità perenne di quella Sacra Scrittura che
ebraicamente è meglio chiamata Sacra Lettura. Quando, dopo l'esilio babilonese,
la Bibbia -a
cominciò a prender forma e
la
Genesi uscì dalla sua preistoria orale e divenne libro, ebbe
inizio, se così si può dire, il racconto del racconto, cioè il racconto (con
relativi commenti, interpretazioni, traduzioni) del libro. *…+ Non saranno mai
abbastanza numerosi i mediatori di questa impresa, che richiede una conoscenza
sempre nuova dei loro lettori/ascoltatori. Il libro di Luigi Rigazzi, in questo
orizzonte acustico-visivo (nel senso che nasce da lezioni "dette" e
si offre ora come lettura), ha una sua rara originalità, perché non perde mai
di vista un pubblico non accademico, e nello stesso tempo è nutrito di una
aggiornatissima conoscenza esegetica ed ermeneutica. Che è l'unico modo per non
tradire il significato del "dire di Dio", da intendersi qui in due
sensi ineliminabili dal testo, ossia parlare di Dio e ascoltare Dio che parla.
Mi pare che questa apparente e necessaria ambiguità sia salvata fino in fondo
dall'autore [...]” (pp. 6-7).
La formula “E disse Dio…”, utilizzata otto volte a nel primo
racconto della creazione e posta significativamente a titolo del libro, in
ebraico è
wajjòmer, che indica l’atto del dire e può essere
interpretato in questo modo: “Dio aprì la bocca e cominciò ad articolare suoni
dicendo”. E’, cioè, l’atto allocutorio, suono articolato in una lingua per la
prima volta, che sì fa parola ordinatrice e creatrice e diviene memoria e
racconto. E il fatto che
la
Bibbia inizi col racconto ci mostra che ci deve sempre essere
un parlare e un ascoltare, un trasmettere e un ricevere, che, di generazione in
generazione, di uomo in uomo, si adegua alle domande e prova ad abbozzare
timidamente le risposte, ossia: racconta il racconto.
L’uomo, di fronte alla Parola, non può limitarsi ad
ascoltare Dio che parla, ma deve, necessariamente, secondo la via della
tradizione cristiana, parlare di Dio e, secondo la via tracciata dalla
tradizione ebraica, parlare a Dio. E ciò può avvenire non nell’immediatezza
dell’ascolto, ma nella lunga e difficile via di ricerca, di studio e di
riflessione su quella Parola che una volta detta da Dio non è più nei cieli, ma
è qui vicina a noi, sulla nostra bocca e nel nostro cuore, come è detto:
“11 Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per
te, né troppo lontano da te. 12 Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per
noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? 13 Non è
di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per
prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? 14 Anzi, questa parola è
molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in
pratica.” (Dt 30,11-14).
Ed una volta nostra (sulla nostra bocca e nel nostro cuore),
perché ascoltata ed accolta, quella Parola va intesa, compresa e interpretata
utilizzando tutti gli strumenti necessari, anche quelli esegetici o scientifici
o teologici o mistici, per dare voce a quella Voce che ora parla solo tramite
noi, nelle nostre parole e nelle nostre azioni. E Luigi Rigazzi,
nell’accogliere il giogo della Parola, ha preso su di sé l’onere del raccontare
per fare uscire quella Voce (la voce del Sinài, direbbero gli ebrei) dal
silenzio e per dare ad altri la possibilità di continuare ad ascoltare e a
raccontare.
Il secondo elemento di fondo, l’imparare da tutti, è esplicitato,
come dichiarazione programmatica, nella citazione posta in esergo all’opera:
“Ben Zoma’ dice: Chi è sapiente? Chi impara da tutti gli
uomini, come è detto: "Ho appreso da chiunque mi abbia insegnato’ (Sal 119,
99)” (Pirqè Avot IV,1).
Ben Zoma’, con queste parole profonde ed aperte, sembra
commentare un noto passo del profeta Geremia: “Il sapiente non di vanti della
sua sapienza, il forte non si vanti della sua forza e non si vanti il ricco
della sua ricchezza” (Gr 9,22). La vera sapienza, la vera forza e la vera
ricchezza è conoscere Dio e le sue vie; e in questo cammino, di ascolto e di
conoscenza, è necessario porsi in ascolto di tutti coloro che hanno, con le
loro parole, con i loro studi e con la loro vita, qualche frammento o qualche
scintilla di senso da insegnarci. In ascolto di tutti, nessuno escluso, sia
egli credente o non credente, sia egli cristiano o ebreo o semplicemente amante
di quella Parola, sia egli esegeta, teologo, mistico o semplicemente uno che
prosegue quel racconto mai finito; sia egli vicino o lontano, nello spazio e
nel tempo. Chiunque, nel nostro cammino, può esserci maestro; ma lo può essere
solo se con umiltà siamo pronti a riconoscerlo e ad ascoltarlo.
E’ l’atteggiamento, come quello di Luigi Rigazzi, di chi non
chiude le porte del testo e dell’interpretazione, ma le lascia aperte, pronto
ad accogliere la voce di tutti, i loro stimoli ed anche i loro errori, perché
nulla , nel piano di Dio, è inutile e perché la sua Parola cresce con chi la
legge, la studia e la vive.
C’è sempre un’altra parola, ossia un’altra interpretazione,
che ci attende, non per insinuare in noi il dubbio, ma per aprirci porte del
testo, sensi della Scrittura, volti di Dio che da soli non saremmo in grado di
scorgere e di individuare.
E’ per questo che di fronte alla Scrittura nessuno deve
vantarsi della propria sapienza o può dichiarare vana la linea di lettura di
altri uomini o di altre tradizioni; ed è per questo che è, come Luigi Rigazzi,
vero sapiente colui che sa accordare la propria voce al coro delle voci di
coloro che
continuano, ieri come oggi, a raccontare quel racconto e a
dire di Dio, con perseveranza, profondità e amore.
E’ per questo che, al cospetto della Scrittura, solo chi
accetta il principio ermeneutico, definito nella tradizione ebraica davàr
achèr, “altra parola, altra interpretazione”, può definirsi sapiente, perché
pronto ad imparare da tutti.
Cerchiamo, allora, di cogliere nel libro di Luigi Ragazzi
quei volti che ci mostrano la via della sapienza aperta e offerta agli altri,
come parola altra che ci obbliga ad ascoltare e continuare con lui o dopo di
lui il racconto.
Primo volto. Leggere
la Scrittura ebrei e i cristiani assieme, nella
reciproca differenza e nella distanza che ci unisce perché ci fa testimoni, per
vie diverse di volti dello stesso Dio, il Dio Uno. Questa apertura percorre il
libro dalla prima pagina all’ultima e ci mostra che non c’è una lettura
cristiana della Scrittura che annulla o supera quella ebraica e che non c’è una
lettura cristiana che può fare a meno della lettura ebraica. L’una e l’altra,
nell’alveo delle rispettive tradizioni, sono parola del Dio vivente e come tali
vanno accolte.
Scrive Luigi Rigazzi in una delle prime pagine de commento: “Il significato della Genesi per l’ebreo e per il cristiano
è appunto quello di interrogare i tempi antichi: “Interroga pure i tempi
antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra
e da una estremità dei cieli all’altra” (Dt 4,32)” (p.31).
L’interrogare è un porre le domande (in ebraico: sha’al) a
cui né il cristiano né l’ebreo possono sottrarsi, perché ne va della loro vita,
delle loro scelte e della loro fede. E la prima risposta è che l’uomo deve, in
ogni condizione, cercare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima (Dt 4,39),
secondo il cammino indicato prima nella Torà (cioè nei primi cinque libri della
Bibbia) e poi in tutta
la
Scrittura, secondo il canone ebraico e i canoni cristiani.
Se è vero, come scrive l’Autore nella Premessa, che “il
libro della Genesi intende in tal modo offrire una visione del rapporto
dell’uomo con Dio e di Dio con l’uomo attraverso la storia” (p. 9), dobbiamo
riconoscere che fin dal principio il mondo creato e le vicende dell’uomo sono
incamminati, secondo il piano di Dio, verso una redenzione che esige la
partecipazione attiva dell’uomo, chiamato a scegliere fra il bene e il male,
nella certezza che Dio è fedele e misericordioso, pronto a volgere, a dispetto
di quanto opera l’uomo, il male in bene.
Secondo volto. In ascolto d’Israele. E’ un cammino difficile
ma necessario per un cristiano o per chi proviene dalla tradizione cristiana o
ad essa si richiama. Abbeverarsi alla fonte dell’hebraica veritas non implica
solo un ritorno al testo della Scrittura in lingua ebraica, oltre
la Vulgata latina o
la Bibbia in greco dei LXX, ma
richiede anche di ascoltare, con rispetto, la lettura ebraica della Scrittura,
secondo le regole ermeneutiche ed esegetiche che le sono proprie. Così facendo
si scopre che la fiamma della fede d’Israele, nella prassi e nello studio,
illumina
la Scrittura
e ci mostra quei sensi che la lettura cristiana o altra non possono cogliere.
Vediamo alcuni esempi.
Il primo all’atto della cacciata di Adamo ed Eva dal Gan
Eden, ovvero dal Paradiso terrestre (Gn 3,20-24): “L'uomo impone il nome alla sua donna; 'Eva, Chawwah' che
significa 'la vivente '. Il versetto sembrerebbe qui fuori luogo; perché Eva è
un titolo altamente onorifico e perciò non rientra più sotto la maledizione.
Questo è un segno positivo e di speranza; l'uomo e la donna non sono morti; si
intuisce l'intenzione divina di non abbandonarli: infatti, scacciandoli dal
giardino di Eden, Dio fa loro due tuniche di pelle e li veste. Il 'targum’(
In realtà il passo di riferimento è Bereshit Rabbà 20,12),
traduce 'tuniche di luce’, quasiché l’umanità potesse relazionarsi ancora con
il suo creatore, nonostante il peccato” (pp. 50-51).
Senza entrare nella complessa interpretazione di Gn 3,21
nella tradizione ebraica, la lettura proposta, “tuniche di luce”, ovvero uno
degli infiniti sensi della Scrittura, ci offre una prospettiva non di
abbassamento della condizione umana, ma di dignità quasi regale. La caduta non
cancella le caratteristiche creaturali dell’uomo, fatto ad immagine e secondo
la somiglianza di Dio, le modifica sostituendo alla nudità non percepita una
veste che differenzia definitivamente l’uomo dagli altri esseri viventi e che
gli conserva quella dignità capace di rapportarlo con Dio e con il mondo.
Il secondo esempio è legato a Caino e in particolare a Gn
4,10: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal
suolo!”. Così commenta l’Autore: “Nel testo ebraico il sangue è al plurale: ‘i sangui’. La
tradizione ebraica intende questo plurale nel senso che quando si uccide un
uomo si uccide non solo quell’uomo, ma tutta la sua progenie, che non potrà più
nascere, perciò ‘chi uccide un uomo uccide un mondo, chi salva un uomo salva un
mondo (Sanhedrin IV)” (pp 53-54).
Se diamo voce al commento di Rashi, diviene evidente la
forza di questo passo:
In
realtà il passo di riferimento è Bereshit Rabbà 20,12.
רש"י בראשית פרק ד פסוק י
)י( דמי אחיך - דמו ודם זרעיותיו. דבר אחר שעשה בו פצעים הרבה
שלא היה יודע מהיכן נפשו יוצאה:
“I sangui di tuo fratello – si tratta del sangue suo (=
Abele) e di tutti i suoi discendenti.
Altra interpretazione. Vuole significare che gli fece molte
ferite perché non sapeva da dove la sua anima sarebbe uscita.”
La traduzione in lingua italiana, “il sangue di tuoi
fratello”, non rende la pregnante profondità del testo. Solo ritornando alle
parole ebraiche si può iniziare a cogliere quei settanta significati che
la Scrittura contiene. “I
sangui”, al plurale in ebraico, sottintendono una pluralità di sangue versato:
quello di un uomo e di tutta la discendenza che da lui deriva e dipende.
Pertanto l’uccisione di Abele cancella infinite vite possibili, mondi interi e
quei sangui versati ci chiedono il rispetto della vita, di ogni vita.
Un terzo esempio ancora: Gn 29,31, ovvero la fecondità di
Lia, la trascurata. Queste le parole del commento di Luigi Rigazzi: “Giacobbe non riuscirà a evitare la rivalità, le invidie, le
gelosie tra le mogli, che saranno causa di sofferenze: è forse rifacendosi a
questa storia che verrà poi abolita la poligamia in Israele. Dio interviene a
consolare la trascurata, o secondo una traduzione più esatta l'odiata;,e la
rende feconda, anche qui secondo una traduzione più esatta' aprì il suo utero’,
si potrebbe ricordare in I proposito l'affermazione del 'talmud' che Dio ha
nelle sue mani tre chiavi: con una apre il grembo delle donne sterili, con una
apre la terra e il cielo per far nascere le piante e far cadere la pioggia, con
la terza apre le tombe per far risuscitare i morti. Un midrash afferma
addirittura che tutte le matriarche di Israele sono sterili, e soltanto dopo
l'intervento divino a loro è consentito concepire: questo per dimostrare che la
storia del popolo eletto è guidata da Dio e dipende soltanto dalla sua
volontà.” (pp. 143-144).
La tradizione ebraica segue percorsi interpretativi che
scavano in profondità nel testo ed in particolare utilizza un’esegesi narrativa
che racconta, a partire da quelle parole, quello che il testo vuole insegnarci
o quello che dal testo è possibile fare emergere. Ecco allora il midrash delle
tre chiavi e quello della sterilità delle matriarche d’Israele, l’uno e l’altro
“raccontati” per insegnarci che tutto è nelle mani di Dio, utilizzando non la
sapienza popolare ma la forza che si sprigiona dalla Parola rivelata.
Terzo volto. La parola del Primo Testamento letta e
reinterpretata dalla parola del Secondo Testamento e dalla tradizione
cristiana. E’ questa, forse, la parte più ricca del commento alla Genesi del
nostro Autore, anche perché il commento nasce in ambito cristiano e rivolto a cristiani.
Un primo esempio. Il Secondo testamento riempie un vuoto del
racconto del Primo testamento. E’ il caso della spiegazione del motivo del
rifiuto da parte di Dio dell’offerta di Caino: “Il testo non ci dice i motivi di questo rifiuto: bisogna
aspettare il N.T.per trovare un tentativo di spiegazione " Per fede Abele
offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino ed in base ad essa fu
dichiarato giusto, attestando Dio stesso di gradire i suoi doni; per essa,
benché morto, parla ancora” (Eb. 11,4); e "Non come Caino, che era dal
maligno e uccise il suo fratello. E per qual motivo lo uccise? Perché le opere
sue erano malvage, mentre quelle di suo fratello erano giuste". (1Gv
3,12)” (p.53)
L’offerta di Abele è fatta per fede
e il suo operare
si pone nella linea della testimonianza data dagli antichi che hanno agito ed
operato per fede: Henoc, Noè, Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè,
fino al Cristo che è autore e perfezionatore della fede.
E ancora: Abele è giusto mentre Caino è malvagio. Prima del
sacrificio, vi sono le disposizioni d'animo di Caino e Abele: il primo diventa
il prototipo del malvagio, il secondo rappresenta la figura del giusto, che
prefigura il Giusto, ovvero il Cristo, «Mediatore della Nuova Alleanza», il cui
sangue è «più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24).
E così si affaccia la lettura tipologica propria della
lettura cristiana della Scrittura: il sacrifico di Abele è figura del
sacrificio di Cristo.
Un secondo esempio. Il Primo testamento illuminato dal
Secondo, ossia: la lettura tipologica. Vediamo come il diluvio e l’arca
rientrino in questo tipo di lettura: “Tipologia cristologica, è la lettura che ne ha fatto la
chiesa sin dal suo nascere, come con Noè nasce una nuova generazione, con Gesù
si rinnova l'umanità. Tipologia ecclesiale, l'arca, mezzo di salvezza,
prefigura la chiesa. L'acqua del diluvio è figura del battesimo, se leggiamo Eb
11,7 "Per fede Noè, avvertito divinamente di cose che ancora non si
vedevano, costruì con pio timore un'arca a salvezza della sua famiglia,' e per
questa fede condannò il mondo e divenne erede della giustizia secondo la
fede". Ora ascoltiamo una delle preghiere che accompagnano la
consacrazione dell'acqua battesimale che recita "O Dio, che lavando per
mezzo delle acque i delitti di un mondo colpevole, hai purificato nel
riversarsi del diluvio la rigenerazione, affinché per il mistero di un solo
elemento si avesse la fine per i vizi e l’origine per le virtù” (pp. 66-67).
Come insegna S. Agostino: “Novum in vetere latet et vetus in
novo patet” e questo rende possibile la lettura tipologica, secondo la modalità
interna del Secondo Testamento. Scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: “Ora, fratelli, non voglio che ignoriate che i nostri padri
furono tutti sotto la nuvola e tutti passarono attraverso il mare, 2 tutti
furono battezzati per Mosé nella nuvola e nel mare, 3 tutti mangiarono il
medesimo cibo spirituale, 4 e tutti bevvero la medesima bevanda spirituale,
perché bevevano dalla roccia spirituale che li seguiva; ora quella roccia era
Cristo.” ( 1Cor 10,1-4)
Un esempio classico di metodo tipologico interno alla
Scrittura lo abbiamo in Gv 3,14 ove Gesù, che è colui che apre le Scritture,
dice a Nicodemo: “Come Mosè alzò il serpente nel deserto, così conviene che il
Figlio dell’uomo - egli stesso - sia innalzato”. In questo versetto il serpente
(Num 21,9) si configura come 'tipo’ prefigurativo di Gesù che risulterebbe a
sua volta 'antitipo’ del serpente. Tipo ed antitipo sono i due elementi
corrispondenti, l’uno nel Primo Testamento e l’altro nel Secondo; il primo è
anticipazione ed il secondo è la sua realizzazione.
C’è, dunque, una via cristiana di lettura della Scrittura
che non può essere abbandonata, in quanto ha il suo fondamento nel Secondo
Testamento, nella liturgia della Chiesa antica e, poi, nell’insegnamento dei
Padri della Chiesa (ampiamente citati nel commento di Luigi Rigazzi).
Va, però, precisato che la lettura cristiana tipologica non
annulla la lettura ebraica del Primo Testamento, come è detto con chiarezza nei
Sussidi (II, 6-7,
Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell'Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo 24 giugno 1986) :
“6. È dunque vero ed è bene sottolinearlo, che
la Chiesa e i cristiani
leggono l'Antico Testamento alla luce dell'avvenimento del Cristo morto e
risorto e che, a questo titolo, esiste una lettura cristiana dell'Antico
Testamento che non coincide necessariamente con la lettura ebraica. Identità
cristiana e identità ebraica devono pertanto essere accuratamente distinte
nella loro rispettiva lettura della Bibbia. Ciò che, tuttavia, nulla sottrae al
valore dell'Antico Testamento nella Chiesa e non vieta che i cristiani possano
a loro volta utilizzare con discernimento le tradizioni di lettura ebraica.
7. La lettura tipologica non fa altro che manifestare le
insondabili ricchezze dell'Antico Testamento, il suo contenuto inesauribile, il
mistero che lo pervade, ed essa non deve far dimenticare che l'Antico
Testamento mantiene il proprio valore di Rivelazione, che spesso il Nuovo
Testamento non farà che riprendere (cf. Mc 12,29-31). Del resto, lo stesso Nuovo Testamento esige parimenti di essere letto alla luce dell'Antico. La catechesi cristiana primitiva vi farà costantemente ricorso (cf. ad es. 1Cor 5,6-8; 10,1 - 11)".
Quarto volto. L’esegesi scientifica e la teoria delle fonti.
Chiunque si avvicini, oggi, alla Genesi non può non riconoscere
il cammino dell’esegesi moderna, in particolare la teoria delle fonti, che ci
permette di cogliere in profondità la struttura del testo e di fare emergere
nuovi sensi che non erano percepibili sena gli strumenti del metodo
storico-critico. Fra le tante vi cito una stupenda pagina del libro, che ci
presenta lo svilluppo storico e teologico delle fonti: jahvista, elohista,
sacerdotale.
“Nel X secolo a.e.v, lo jahwista teologo della corte di
Gerusalemme (regno di Salomone), ha interpretato le tradizioni patriarcali in
modo da mostrare che la regalità davidica era il compimento finale elle
promesse fatte ai padri. Nel'VIII secolo a.e.v.,dopo la divisione del regno in
due stati indipendenti, un teologo del nord (elohista), ha attualizzato le
stesse tradizioni, ma in un contesto sociale completamente diverso, perché egli
deve combattere la religione cananea, che minacciava l'esistenza stessa della
religione del Dio Unico. Nel VI secolo a.e.v., durante l'esilio in Babilonia,
teologi giudei (sacerdotale), hanno interpretato le storie dei patriarchi
attualizzandole in base alla loro situazione, per dare coraggio e rianimare i
loro compagni di prigionia e prepararli al ritorno in patria. Questo bisogno di
attualizzazioni continue e sempre nuove delle stesse tradizioni antiche, è
proprio del 'genere omiletico '. La necessità di attualizzare ogni volta
tradizioni antiche in situazioni in continuo mutamento e trasformazione è stata
resa possibile grazie a questi grandi maestri e teologi: lo jahwista,
l'elohista ed il sacerdotale. I patriarchi sono soltanto modelli da seguire, da
imitare, perché testimoni di una 'parola-promessa' di Dio, che ha valore anche
per chi ascolta oggi. Dei patriarchi
la Bibbia non fa una 'biografia storica' che si può
ricostruire in parte con le indagini scientifiche oggi a disposizione della
storiografia moderna, ma fa una 'biografia sacra' il cui solo scopo è di
proprre dei personaggi ritenuti 'modello di vita' per l'oggi, perché loro si
sono messi all'ascolto di Dio, ed hanno accettato i suoi dettati senza porsi
domande.” (pp. 83-84).
Penso che in nessun testo introduttivo alla Genesi o al
Primo Testamento sia possibile trovare una più precisa e stimolante sintesi
della storia delle fonti, che così spiegata non è archeologia del testo o frammentazione
dell’unità della redazione finale, ma diviene una possibilità in più che ci
viene offerta per fare della parole
la Parola.
In conclusione, se è vero, come afferma Origene, che “Non
c’è nella Bibbia un senso definito una volta per tutte”, dobbiamo ringraziare
Luigi per averci offerto questo libro che è uno stimolo ad ognuno di noi per
iniziare o continuare il cammino nella ricerca di quel settantunesimo senso
della Scrittura, che è quel senso che ci attende se decidiamo di fare della
Scrittura, nella vita e nello studio, la fiaccola che illumina la nostra via.
Prefazione
“Rabbi Israele di Rižin raccontava: ‘… Tutti gli scolari
di mio nonno, il Grande Magghid, insegnavano in suo nome, salvo Rabbi Sussja.
Questo dipendeva dal fatto che Rabbi Sussja non aveva forse mai ascoltato fino
in fondo un discorso del maestro. Perché al principio del discorso, quando il
Magghid leggeva il passo della santa Scrittura che voleva spiegare, e
cominciava con le parole della Scrittura «E Dio disse», Rabbi Sussja era subito
rapito fuori di sé, e gridava e si muoveva così selvaggiamente che disturbava
la tavolata e bisognava condurlo fuori. Allora stava nell’ingresso o nella
legnaia, batteva contro le pareti e gridava: «E Dio disse!» Si calmava soltanto
quando mio nonno cessava di spiegare la Scrittura’” (Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Guanda, Parma 1992, p. 214). Rabbi
Sussja, in realtà, aveva capito con tutto se stesso che cosa significasse
l’aprir bocca da parte di Dio: la creazione del mondo, e anche il racconto di
tale creazione. Tutto questo si trova nella prima pagina della Genesi, nella
quale vediamo prender forma, contemporaneamente, tre realtà concatenate e
indivisibili: il manifestarsi di Dio come parola, la sua decisione di crearsi
un “tu” che è appunto il mondo, e, infine e prima di tutto, l’identificazione
della storia di Dio con il racconto. E’ profondamente vero, perciò, il titolo
che Brunetto Salvarani ha dato a un suo commento biblico: In principio era il racconto. Ma il racconto biblico (che per un
credente è considerato parola di Dio) deve essere continuamente di nuovo raccontato,
perché ogni generazione ascolta la
Parola secondo le proprie orecchie: è questa la vitalità
perenne di quella Sacra Scrittura che ebraicamente è meglio chiamata Sacra
Lettura.Quando, dopo l’esilio babilonese, la Bibbia cominciò a prender forma e la Genesi uscì dalla sua
preistoria orale e divenne libro, ebbe inizio, se così si può dire, il racconto
del racconto, cioè il racconto (con relativi commenti, interpretazioni,
traduzioni) del libro. Un’avventura che dura tuttora e durerà sempre, e che impegna
sia a livello religioso, sia a livello scientifico, sia a livello letterario e
artistico. Non saranno mai abbastanza numerosi i mediatori di questa impresa,
che richiede una conoscenza sempre nuova dei loro lettori/ascoltatori. Il libro
di Luigi Rigazzi, in questo orizzonte acustico-visivo (nel senso che nasce da
lezioni “dette” e si offre ora come lettura), ha una sua rara originalità,
perché non perde mai di vista un pubblico non accademico, e nello stesso tempo
è nutrito di una aggiornatissima conoscenza esegetica ed ermeneutica. Che è
l’unico modo per non tradire il significato del “dire di Dio”, da intendersi
qui in due sensi ineliminabili dal testo, ossia parlare di Dio e ascoltare Dio
che parla. Mi pare che questa apparente e necessaria ambiguità sia salvata fino
in fondo dall’autore, che ha pienamente realizzato quanto egli scrive
all’inizio del suo commento: “Lo scopo della Genesi è quello di presentare
l’uomo e la storia nel loro rapporto con Dio”; un rapporto che non ha mai fine,
e quindi, paradossalmente, una Genesi che non ha mai fine.
Paolo De Benedetti
Premessa
Il presente lavoro deve la sua nascita alla richiesta di
alcuni genitori della parrocchia di S. Prospero di Reggio Emilia, dove fui
invitato nel febbraio del 2002
a tenere un corso biblico su ‘Genesi 1 – 50’. Inizialmente tale
richiesta mi trovò disorientato, perché, sebbene da più di trent'anni mi
interessi di studi biblici, di ebraismo e di ebraico, non mi ero mai cimentato
a mettere i miei appunti per iscritto ad uso d'altri. Nonostante ciò accettai
con entusiasmo, sapendo che sarei stato il primo a trarre beneficio da un tale
impegno, e per circa un anno lavorai al progetto. Se ora nasce questo testo, di
ciò devo ringraziare innanzi tutto Ivanna Rossi, che ha corretto le prime bozze
del corso, Paolo De Benedetti e Sergio Caldarella, che avendo letto le
dispense, mi hanno esortato, aiutandomi con consigli e suggerimenti, a
trasformarle in un libro. Questo lavoro si rivolge in particolar modo a chi si
avvicina per la prima volta alla Bibbia, e vuole iniziare un percorso di studio
sistematico sul testo: avere i primi rudimenti storico-critici, scoprire la
lettura della Genesi fatta dal Nuovo
Testamento, dalla tradizione ebraica, e dai Padri della Chiesa, essere guidati
a una lettura attualizzante del testo. Su Genesi esistono migliaia di testi,
studiosi di tutte le generazioni si sono cimentati nel commento: ma, come dice
De Benedetti, la Scrittura
ha settanta sensi, anzi settantuno, perciò ognuno la recepisce secondo le sue
conoscenze; infatti il testo è sempre aperto e pronto ad essere interrogato. La Genesi è stata posta
all'inizio della Bibbia, proprio perché tratta delle origini; ma in realtà è la
riflessione tardiva di un popolo che alla luce delle propria esperienza storica
ripensa a come potrebbero essersi svolti gli eventi fin ‘dal principio’,
meditando sulle proprie credenze e sulle riflessioni teologiche, nate dalla
profonda fede in un ‘Dio Uno’. Il libro della Genesi intende in tal modo offrire una visione del rapporto
dell'uomo con Dio e di Dio con l'uomo attraverso la storia.Le storie dei
Patriarchi ed il ciclo di Giuseppe servono al redattore finale per gettare un
ponte con l'Esodo e colmare, così, quel vuoto storico tra il soggiorno in
Egitto dei figli di Israele e l'uscita da quel paese.
Reggio Emilia 30.06.07
Luigi Rigazzi
GENESI
Genesi, ‘Bereshit’, ‘In Principio’,
dalla parola iniziale del testo ebraico, primo libro del Pentateuco, comprende
50 capitoli ed è divisibile in tre parti:
1)
Storia primordiale biblica, creazione, peccato
originale, caduta, Caino e Abele, diluvio e arca di Noè, Torre di Babele e
dispersione dei popoli. Gen 1 - 11.
2)
Storia dei Patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe.
Gen. 12 - 38.
3)
Storia di Giuseppe, la sua vendita come schiavo, la
sua fortuna, discesa in Egitto di suo padre e dei suoi fratelli. Gen 39 - 50.
Redazione finale V secolo
a.e.v.
La Creazione.
Separazione.
Questo libro è stato posto
all'inizio del testo biblico proprio perché è incentrato sul tema delle
origini, ma in realtà è la riflessione più tardiva di un popolo, che, alla luce
della propria esperienza storica, ripensa a come potrebbero essere andate le
cose fin dal principio, meditando sulle proprie credenze e riflessioni
teologiche e liturgiche nate dalla profonda fede nel Dio dei Padri. Lo scopo
della Genesi è quello di presentare l'uomo e la storia nel loro rapporto con
Dio. L'affermazione che Dio ha creato l'universo, ripetuta nel testo in maniera
quasi ossessiva, si rivolgeva in forma polemica al mondo politeista dell'antico
Vicino Oriente, e questa polemica presumeva il distacco totale da parte di
Israele, nei confronti di queste religioni. Dal 587 a.e.v. Israele era in
esilio in Babilonia, dove viveva come minoranza etnica e religiosa. I deportati
si assimilarono rapidamente all'ambiente: ne avevano già assunto la lingua,
come si deduce da una quantità di nomi babilonesi, ed era anche stato adottato
il loro calendario. E' in questa situazione, lontani da Gerusalemme e dal
tempio, che i deportati resistono all'assimilazione sul piano religioso,
passando ad un ‘monoteismo assoluto’, eliminando ogni forma di ‘sincretismo’.
E' meraviglioso vedere come il piccolo Israele si sia preservato dagli
insistenti influssi dei miti ‘cosmogonici e teogonici’ dell'ambiente in
cui viveva.Nei miti della creazione del Vicino Oriente, il ‘caos
primordiale’ viene personificato dalla divinità femminile Tiamat. Dopo
l'uccisione di questa da parte del dio creatore Marduk, patrono di Babilonia
(presso gli assiri questa operazione viene compiuta da Assur, patrono
dell'Assiria), il cadavere viene diviso in due parti, una costituente il cielo,
l'altra la terra: pertanto l'universo è il prodotto della spartizione di una
divinità, perciò anch'esso divino. Nella tradizione sacerdotale (fonte P) ciò
non avviene, il cielo e la terra sono creati, quindi sostanzialmente diversi
dal loro creatore, il quale come ha decretato la loro esistenza, può stabilirne
anche la fine. Perciò quando il testo afferma la creazione divina, nega ogni
forma di esistenza autonoma della creazione e delle creature: ambedue esistono
soltanto in quanto creati ed in una relazione positiva con il loro Creatore