mercoledì 29 febbraio 2012

F.I.A.P.


                                           Federazione Italiana  Associazioni Partigiane
                                                                Circolo F.lli Rosselli
                                           Via Don Minzioni 1 / D - 42100 Reggio Emilia
                                          Tel. 389.1029005 - e-mail info@torrazzore.com

                      PRESENTAZIONE DELLA F.I.A.P.

Sabato 17 gennaio presso il Circolo Berneri in Via Don Minzoni 1/D si è svolta l'assemblea dibattito per la presentazione della F.I.A.P.  ( Federazione  Italiana delle Associazioni Partigiane ).
Al dibattito hanno partecipato Aldo Aniasi ( Presidente della F.I.A.P. ) e lo storico Marco Rossi.
La resistenza è stata la chiave di volta in cui è intervenuto prima Marco Rossi che ne ha dato una lettura storica dalle origini e delle varie fasi in cui si è articolata, evidenziando l'importanza delle componenti minori, ma non per questo minoritarie, nel processo resistenziale.
Dopo è intervenuto Aldo Aniasi che ha esposto l'importanza delle varie componenti liberalsocialiste, repubblicane, azioniste, libertarie e antiburocratiche, che   hanno dato un contributo decisivo alla lotta partigiana e alla conseguente liberazione del paese dal nazifascismo.
Il dibattito è stato  seguito e ha registrato diversi interventi dei giovani presenti all'assemblea, che  hanno  dialogato a lungo con i relatori, sviluppando un'interessante discussione durata alcune ore.
In particolar modo, la discussione ha evidenziato le pericolose tendenze revisioniste che si stanno diffondendo nel paese e che vorrebbero screditare la Lotta Partigiana.
Dopo quest'interessante incontro, si è deciso di costituire il Circolo Provinciale di Reggio Emilia, affiliato alla F.I.A.P..
Quest'ultimo è stato  intestato ai Fratelli Rosselli con sede in Via Don Minzioni 1 D.
L'intento dei promotori è di portare a conoscenza delle nuove generazioni la straordinaria esperienza della Resistenza,  divulgando i valori ed il patrimonio morale e storico da essa scaturiti.
Abbiamo  già programmato una serie di iniziative, la prima sarà una commemorazione in occasione del sessantesimo anniversario della fucilazione del Partigiano Anarchico  Enrico Zambonini, ucciso a Reggio Emilia assieme a Don Pasquino Borghi ed altri Partigiani.
Si sta inoltre preparando per il 25 Aprile, un Convegno di Studio sull'Antifascismo d'Azione che prenderà in esame le tendenze Libertarie del movimento sopra citato.
Alla fine la giornata si è conclusa con una cena a base di " cappelletti antifascisti" e del buon lambrusco Rosso Vivo, con innumerevoli canti della Resistenza.

Reggio Emilia, li, 28 Gennaio 2004


                                                                              IL COORDINATORE

                                                                      Luigi Rigazzi




martedì 28 febbraio 2012

IN MORTE DI BUFFINA


                             GATTINA TUTTA TINTE


                                                        AGGIORNATA DA TITTI
                                                         GATTINA TUTTA NERA
                                                               MAMMA DI BOBO


                                                               (IN FORMA DI RIV)

                                                    Sul loro cuscino di nuvole bianche

le care Noappa, Fru Fru e  Respirosa ti aspettavano.

Ora sei giunta da loro, e tu con il tuo gentile

gorgoglio, le racconti di noi che aspettiamo,

di Camillo il tuo grande amore, della Cleo, della Titti

 di Poldone e Gedeone,

di Lulù  e del mio Topone

del Terribile  e di Nerone e Giosuè

detto il Codino.

O Signore, è questa l’alleanza

fatta da Te con uomini e animali

dopo il diluvio, che non mandi più

perché altre vie ci sono per morire?

Se non prometti che lassù vedrò

la Drak, Bobo e Camillo

 la Principessa e la Titti tutta nera

e tutti i mici e le micie e gli angeli quadrupedi

che qui ci rendono amabile la vita,

se non prometti che vedrò anche loro,

ti restituisco la resurrezione

e resto nel mai più dello sheol.

Luigi Rigazzi


(da Per la morte di Nik Pierino Gatto Buonissimo di Paolo De Benedetti)





Reggio Emilia, 18.02.2011

SILIPRANDI RICCARDO


                SILIPRANDI RICCARDO “ ARIE”


23 FEBBRAIO  1889 - 5 MAGGIO 1921

SONO IL COORDINATORE PROVINCIALE DELLA F.I.A.P. -

( FEDERAZIONE ITALIANA DELLE ASSOCIAZIONI PARTIGIANE  )-  ASSOCIAZIONE CHE FU DI PARRI – PERTINI – BOBBIO – GALANTE GARRONE E MOLTISSIMI ALTRI -  ASSOCIAZIONE SOTTO LA CUI BANDIERA SI RACCOLSERO LE VARIE ANIME LIBERALI DELLA RESISTENZA DAI REPUBBLICANI AI LIBERALI AGLI AZIONISTI AI LIBERTARI  -
OGGI 25 APRILE SIAMO QUI PER RICORDARE UN MARTIRE DELLA RESISTENZA AL FASCISMO – SI RESISTENZA ANCHE SE COME RECITA LA DATA DI MORTE DEL   COMPAGNO SILIPRANDI  EGLI  FU TRUCIDATO IL 5 MAGGIO DEL 21 – PERCHE’ NON DOBBIAMO DIMENTICARE CHE LA RESISTENZA AL FASCISMO E’ INIZIATA CON I MOTI DEL BIENNIO ROSSO – CON GLI ARDITI DEL POPOLO -  LA GUERRA DI SPAGNA E LA GUERRA DI LIBERAZIONE -
IL COMPAGNO ARIE FU BARBARAMENTE UCCISO LA MATTINA DEL 5 MAGGIO DEL 1921 A SOLI 32 ANNI A  LUZZARA DA UNA SQUADRACCIA DI FASCISTI – RIMASTI IMPUNITI PER LA GIA’ INIZIATA CONVIVENZA DEGLI ORGANI GIUDICANTI DEL GOVERNO LIBERAL / MONARCHICO CON IL NASCENTE FASCISMO  - I QUATTRO COLPEVOLI  AL TERMINE DI UN PROCESSO BURLA DOVE I TESTI ERANO GLI STESSI AUTORI DEL CRIMINE - FURONO PROSCIOLTI -  E  ALL’USCITA DAL TRIBUNALE FURONO PORTATI  IN TRIONFO COME EROI - AL CANTO “ AD UNO AD UNO LI AMMAZZEREM” – IL GRANDE POETA CESARE ZAVATTINI IN UNA SUA STUGGENTE POESIA DEDICATA A RICCARDO SILIPRANDI LO DEFINI’ “ N’ANARCHIC, BON C’MEL PAN”

                                        IN RICORDO DI ARIE'
                  (Cesare Zavattini, Ariè, Sticarm' in d'na parola, Milano, 1973)

                                           Cusa favia al dé ch'è mort Arié?
                                                         A gh'eva vint'an.
                                                        L'era un cariulant,
                                                  n'anarchic, bon c'mel pan.
                                                 da quand chi là i cmandava
                                                    al stava lugà in dal bosc.
                                                          Lur il pungdava.
                                                     Na matina l'eva riscià
                                              d'gn'in paes a salutà so madar.
                                                I l'à vest, in quatr'i gà sparà,
                                                          lasà cuntr'al mur
                                             a sugaras cm'en pipistrel fiundà.

                                         Cosa facevo il giorno in cui mor' Ariè?
                                                            avevo vent'anni.
                                                          Era un bracciante,
                                            un'anarchico, buono come il pane.
                                            Da quando quelli là comandavano
                                                   restava nascosto nel bosco.
                                                        Loro lo aspettavano.
                                                    Una mattina si arrischiò
                                        a venire in paese a salutare sua madre,
                                            Lo videro, gli spararono in quattro,
                                                   lo lasciarono contro il muro
                                              a dissanguarsi come un pipistrello.

                                                          Luigi Rigazzi

lunedì 27 febbraio 2012

COMMENTO A GENESI




Presentazione di Gianpaolo Anderlini
In principio

Interpretatio infinita est!

(G. Scoto).

Si racconta che RASHI (acronimo per indicare Rabbi Shlomò ben Jitschàq), il più grande e versatile commentatore dell’ebraismo medievale, non facesse di professione l’esegeta e non vivesse dello studio della Torà, ma avesse un’occupazione mondana alla quale dedicarsi e dalla quale trarre di che vivere lui e la sua famiglia. La tradizione vuole, infatti, che Rashi di Troyes, nella zona che darà vita allo champagne, fosse un vignaiolo o, forse, un commerciante di vino.
Questo ci insegna che (almeno secondo uno dei tanti rami della tradizione ebraica) non bisogna fare delle Parola di Dio e della sua interpretazione una professione, perché Dio è un fuoco che divora ed la sua Parola è fonte di vita e, di conseguenza, va trattata come una cosa santa, dono di Dio, il Santo, dalla quale non si può trarre alcun profitto materiale e della quale nemmeno si può farsene un vanto. Inoltre, chi si dedica esclusivamente allo studio della Parola di Dio rischia di perdere il contatto con la realtà di questo mondo, nel quale la parola necessariamente deve essere compiuta ed incarnata, e di imporre agli altri un pesante giogo che la Parola non vuole e non deve imporre.
Questo insegna anche a noi, moderni amanti dell’iperspecializzazione settoriale e delle risposte affidate a coloro che riconosciamo esperti, che non dobbiamo affidarci, per quanto riguarda la Parola di Dio e la fede, a chi fa di quella Parola una professione. Chi lo fa, infatti, rischia di avere lo sguardo corto.
L’esegeta vede la Parola come testo del quale vanno individuati i tatti specifici da analizzare in modo “scientifico” (il metodo storico-crtitico) e, così facendo, confina la forza della Parola in un orizzonte storico e lettrario delimitato che non lascia più risuonare l’eco della prorompente voce del Sinài.
Il teologo fa della Parola uno strumento subordinato (ancillare) che deve fornire l’appoggio, non sempre necessario, per sostenere la sua visione di Dio e il castello delle sue riflessioni, figlie più del sistema culturale che della cogenza della Parola stessa.
Il cristiano legge ed interpreta la Parola partendo da una precomprensione che non gli permette di cogliere la forza e la pienezza della lettura di altre tradizioni; lo stesso fa l’ebreo che approccia la Torà per farla ed ascoltarla, secondo quanto detto in Esodo 24,7, e riconosce solo alle
parole dei Maestri, ovvero: alla Torà orale, la via di accesso al compimento e all’interpretazione dei precetti.
Ma la Parola di Dio, una volta detta dall’Altissimo, ascoltata ed accolta dall’uomo, ha una forza travolgente che non può essere contenuta in nessuno studio esegetico, in nessun sistema teologico, in nessuna tradizione. La Parola di Dio , come ci insegna la tradizione ebraica, ha settanta sensi, ossia: infiniti significati; anzi ne ha settantuno, perché c’è un senso che può essere rivelato solo da ognuno di noi e da ogni uomo in ogni generazione. E’ il nostro senso, il volto di Dio che riusciamo a scoprire coi nostri occhi, con le nostre orecchie e con le nostre mani tra gli spazi bianchi e le lettere nere del testo letto, interpretato e vissuto. E, forse (ne sono certo), c’è anche un settantaduesimo senso, quello che non può essere disvelato qui ed ora a nessuno e da nessuno. E’ il senso che riusciremo a cogliere e ad intendere solo nel mondo a venire, quando, al cospetto del Santo benedetto egli sia, potremo discutere con lui ed apprendere da lui, il Maestro che da sempre ci attende, quei sensi della Parola che la nostra miopia e la nostra limitatezza non ci hanno permesso di scorgere.
Il libro di Luigi Rigazzi “E Dio disse … Un commento alla Genesi” ci apre il settantunesimo senso, quello che l’autore ha cercato e trovato nel suo cammino di studio e di ricerca, e, forse, ci lascia intravedere un riflesso di quel settantaduesimo senso che può essere detto solo “dalla bocca dei bambini e dei lattanti” (Sal 8,2), cioè da chi si dichiara discepolo e non maestro e da chi è pronto a dare tutto per vivere solo di Parola di Dio, come il lattante che sugge il latte dal seno provvido della madre.
Due sono gli elementi di fondo che fanno del libro una continua apertura di senso: il primo è il raccontare Dio, l’uomo, la storia e il mondo; il secondo, l’imparare da tutti.
Il primo elemento è definito con chiarezza da Paolo De Benedetti nella prefazione:
"Rabbi Israele di Rizin raccontava: '... Tutti gli scolari di mio nonno, il Grande Magghid, insegnavano in suo nome, salvo Rabbi Sussja. Questo dipendeva dal fatto che Rabbi Sussja non aveva forse mai ascoltato fino in fondo un discorso del maestro. Perché al principio del discorso, quando il Magghid leggeva il passo della santa Scrittura che voleva spiegare, e cominciava con le parole della Scrittura «E Dio disse», Rabbi Sussja era subito rapito fuori di sé, e gridava e si muoveva così selvaggiamente che disturbava la tavolata e bisognava condurlo fuori. Allora stava nell'ingresso o nella legnaia, batteva contro le pareti e gridava: «E Dio disse!» Si calmava soltanto quando mio nonno cessava di spiegare la Scrittura'" (Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Guanda, Parma 1992, p. 214). Rabbi Sussja, in realtà, aveva capito con tutto se stesso che cosa significasse l'aprir bocca da parte di Dio: la creazione del mondo, e anche il racconto di tale creazione. Tutto questo si trova nella prima pagina della Genesi, nella quale vediamo prender forma, contemporaneamente, tre realtà concatenate e indivisibili: il manifestarsi di Dio come parola, la sua decisione di crearsi un "tu" che è appunto il mondo, e, infine e prima di tutto, l'identificazione della storia di Dio con il racconto .*…+. Ma il racconto biblico (che per un credente è considerato parola di Dio) deve essere continuamente di nuovo raccontato, perché ogni generazione ascolta la Parola secondo le proprie orecchie: è questa la vitalità perenne di quella Sacra Scrittura che ebraicamente è meglio chiamata Sacra Lettura. Quando, dopo l'esilio babilonese, la Bibbia -a cominciò a prender forma e la Genesi uscì dalla sua preistoria orale e divenne libro, ebbe inizio, se così si può dire, il racconto del racconto, cioè il racconto (con relativi commenti, interpretazioni, traduzioni) del libro. *…+ Non saranno mai abbastanza numerosi i mediatori di questa impresa, che richiede una conoscenza sempre nuova dei loro lettori/ascoltatori. Il libro di Luigi Rigazzi, in questo orizzonte acustico-visivo (nel senso che nasce da lezioni "dette" e si offre ora come lettura), ha una sua rara originalità, perché non perde mai di vista un pubblico non accademico, e nello stesso tempo è nutrito di una aggiornatissima conoscenza esegetica ed ermeneutica. Che è l'unico modo per non tradire il significato del "dire di Dio", da intendersi qui in due sensi ineliminabili dal testo, ossia parlare di Dio e ascoltare Dio che parla. Mi pare che questa apparente e necessaria ambiguità sia salvata fino in fondo dall'autore [...]” (pp. 6-7).
La formula “E disse Dio…”, utilizzata otto volte a nel primo racconto della creazione e posta significativamente a titolo del libro, in ebraico è  wajjòmer, che indica l’atto del dire e può essere interpretato in questo modo: “Dio aprì la bocca e cominciò ad articolare suoni dicendo”. E’, cioè, l’atto allocutorio, suono articolato in una lingua per la prima volta, che sì fa parola ordinatrice e creatrice e diviene memoria e racconto. E il fatto che la Bibbia inizi col racconto ci mostra che ci deve sempre essere un parlare e un ascoltare, un trasmettere e un ricevere, che, di generazione in generazione, di uomo in uomo, si adegua alle domande e prova ad abbozzare timidamente le risposte, ossia: racconta il racconto.
L’uomo, di fronte alla Parola, non può limitarsi ad ascoltare Dio che parla, ma deve, necessariamente, secondo la via della tradizione cristiana, parlare di Dio e, secondo la via tracciata dalla tradizione ebraica, parlare a Dio. E ciò può avvenire non nell’immediatezza dell’ascolto, ma nella lunga e difficile via di ricerca, di studio e di riflessione su quella Parola che una volta detta da Dio non è più nei cieli, ma è qui vicina a noi, sulla nostra bocca e nel nostro cuore, come è detto:
“11 Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. 12 Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? 13 Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? 14 Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.” (Dt 30,11-14).
Ed una volta nostra (sulla nostra bocca e nel nostro cuore), perché ascoltata ed accolta, quella Parola va intesa, compresa e interpretata utilizzando tutti gli strumenti necessari, anche quelli esegetici o scientifici o teologici o mistici, per dare voce a quella Voce che ora parla solo tramite noi, nelle nostre parole e nelle nostre azioni. E Luigi Rigazzi, nell’accogliere il giogo della Parola, ha preso su di sé l’onere del raccontare per fare uscire quella Voce (la voce del Sinài, direbbero gli ebrei) dal silenzio e per dare ad altri la possibilità di continuare ad ascoltare e a raccontare.
Il secondo elemento di fondo, l’imparare da tutti, è esplicitato, come dichiarazione programmatica, nella citazione posta in esergo all’opera:
“Ben Zoma’ dice: Chi è sapiente? Chi impara da tutti gli uomini, come è detto: "Ho appreso da chiunque mi abbia insegnato’ (Sal 119, 99)” (Pirqè Avot IV,1).
Ben Zoma’, con queste parole profonde ed aperte, sembra commentare un noto passo del profeta Geremia: “Il sapiente non di vanti della sua sapienza, il forte non si vanti della sua forza e non si vanti il ricco della sua ricchezza” (Gr 9,22). La vera sapienza, la vera forza e la vera ricchezza è conoscere Dio e le sue vie; e in questo cammino, di ascolto e di conoscenza, è necessario porsi in ascolto di tutti coloro che hanno, con le loro parole, con i loro studi e con la loro vita, qualche frammento o qualche scintilla di senso da insegnarci. In ascolto di tutti, nessuno escluso, sia egli credente o non credente, sia egli cristiano o ebreo o semplicemente amante di quella Parola, sia egli esegeta, teologo, mistico o semplicemente uno che prosegue quel racconto mai finito; sia egli vicino o lontano, nello spazio e nel tempo. Chiunque, nel nostro cammino, può esserci maestro; ma lo può essere solo se con umiltà siamo pronti a riconoscerlo e ad ascoltarlo.
E’ l’atteggiamento, come quello di Luigi Rigazzi, di chi non chiude le porte del testo e dell’interpretazione, ma le lascia aperte, pronto ad accogliere la voce di tutti, i loro stimoli ed anche i loro errori, perché nulla , nel piano di Dio, è inutile e perché la sua Parola cresce con chi la legge, la studia e la vive.
C’è sempre un’altra parola, ossia un’altra interpretazione, che ci attende, non per insinuare in noi il dubbio, ma per aprirci porte del testo, sensi della Scrittura, volti di Dio che da soli non saremmo in grado di scorgere e di individuare.
E’ per questo che di fronte alla Scrittura nessuno deve vantarsi della propria sapienza o può dichiarare vana la linea di lettura di altri uomini o di altre tradizioni; ed è per questo che è, come Luigi Rigazzi, vero sapiente colui che sa accordare la propria voce al coro delle voci di coloro che
continuano, ieri come oggi, a raccontare quel racconto e a dire di Dio, con perseveranza, profondità e amore.
E’ per questo che, al cospetto della Scrittura, solo chi accetta il principio ermeneutico, definito nella tradizione ebraica davàr achèr, “altra parola, altra interpretazione”, può definirsi sapiente, perché pronto ad imparare da tutti.
Cerchiamo, allora, di cogliere nel libro di Luigi Ragazzi quei volti che ci mostrano la via della sapienza aperta e offerta agli altri, come parola altra che ci obbliga ad ascoltare e continuare con lui o dopo di lui il racconto.
Primo volto. Leggere la Scrittura ebrei e i cristiani assieme, nella reciproca differenza e nella distanza che ci unisce perché ci fa testimoni, per vie diverse di volti dello stesso Dio, il Dio Uno. Questa apertura percorre il libro dalla prima pagina all’ultima e ci mostra che non c’è una lettura cristiana della Scrittura che annulla o supera quella ebraica e che non c’è una lettura cristiana che può fare a meno della lettura ebraica. L’una e l’altra, nell’alveo delle rispettive tradizioni, sono parola del Dio vivente e come tali vanno accolte.
Scrive Luigi Rigazzi in una delle prime pagine de commento: “Il significato della Genesi per l’ebreo e per il cristiano è appunto quello di interrogare i tempi antichi: “Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da una estremità dei cieli all’altra” (Dt 4,32)” (p.31).
L’interrogare è un porre le domande (in ebraico: sha’al) a cui né il cristiano né l’ebreo possono sottrarsi, perché ne va della loro vita, delle loro scelte e della loro fede. E la prima risposta è che l’uomo deve, in ogni condizione, cercare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima (Dt 4,39), secondo il cammino indicato prima nella Torà (cioè nei primi cinque libri della Bibbia) e poi in tutta la Scrittura, secondo il canone ebraico e i canoni cristiani.
Se è vero, come scrive l’Autore nella Premessa, che “il libro della Genesi intende in tal modo offrire una visione del rapporto dell’uomo con Dio e di Dio con l’uomo attraverso la storia” (p. 9), dobbiamo riconoscere che fin dal principio il mondo creato e le vicende dell’uomo sono incamminati, secondo il piano di Dio, verso una redenzione che esige la partecipazione attiva dell’uomo, chiamato a scegliere fra il bene e il male, nella certezza che Dio è fedele e misericordioso, pronto a volgere, a dispetto di quanto opera l’uomo, il male in bene.
Secondo volto. In ascolto d’Israele. E’ un cammino difficile ma necessario per un cristiano o per chi proviene dalla tradizione cristiana o ad essa si richiama. Abbeverarsi alla fonte dell’hebraica veritas non implica solo un ritorno al testo della Scrittura in lingua ebraica, oltre la Vulgata latina o la Bibbia in greco dei LXX, ma richiede anche di ascoltare, con rispetto, la lettura ebraica della Scrittura, secondo le regole ermeneutiche ed esegetiche che le sono proprie. Così facendo si scopre che la fiamma della fede d’Israele, nella prassi e nello studio, illumina la Scrittura e ci mostra quei sensi che la lettura cristiana o altra non possono cogliere.
Vediamo alcuni esempi.
Il primo all’atto della cacciata di Adamo ed Eva dal Gan Eden, ovvero dal Paradiso terrestre (Gn 3,20-24): “L'uomo impone il nome alla sua donna; 'Eva, Chawwah' che significa 'la vivente '. Il versetto sembrerebbe qui fuori luogo; perché Eva è un titolo altamente onorifico e perciò non rientra più sotto la maledizione. Questo è un segno positivo e di speranza; l'uomo e la donna non sono morti; si intuisce l'intenzione divina di non abbandonarli: infatti, scacciandoli dal giardino di Eden, Dio fa loro due tuniche di pelle e li veste. Il 'targum’(In realtà il passo di riferimento è Bereshit Rabbà 20,12), traduce 'tuniche di luce’, quasiché l’umanità potesse relazionarsi ancora con il suo creatore, nonostante il peccato” (pp. 50-51).
Senza entrare nella complessa interpretazione di Gn 3,21 nella tradizione ebraica, la lettura proposta, “tuniche di luce”, ovvero uno degli infiniti sensi della Scrittura, ci offre una prospettiva non di abbassamento della condizione umana, ma di dignità quasi regale. La caduta non cancella le caratteristiche creaturali dell’uomo, fatto ad immagine e secondo la somiglianza di Dio, le modifica sostituendo alla nudità non percepita una veste che differenzia definitivamente l’uomo dagli altri esseri viventi e che gli conserva quella dignità capace di rapportarlo con Dio e con il mondo.
Il secondo esempio è legato a Caino e in particolare a Gn 4,10: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”. Così commenta l’Autore: “Nel testo ebraico il sangue è al plurale: ‘i sangui’. La tradizione ebraica intende questo plurale nel senso che quando si uccide un uomo si uccide non solo quell’uomo, ma tutta la sua progenie, che non potrà più nascere, perciò ‘chi uccide un uomo uccide un mondo, chi salva un uomo salva un mondo (Sanhedrin IV)” (pp 53-54).
Se diamo voce al commento di Rashi, diviene evidente la forza di questo passo:  In realtà il passo di riferimento è Bereshit Rabbà 20,12.
 רש"י בראשית פרק ד פסוק י
)י( דמי אחיך - דמו ודם זרעיותיו. דבר אחר שעשה בו פצעים הרבה שלא היה יודע מהיכן נפשו יוצאה:
“I sangui di tuo fratello – si tratta del sangue suo (= Abele) e di tutti i suoi discendenti.
Altra interpretazione. Vuole significare che gli fece molte ferite perché non sapeva da dove la sua anima sarebbe uscita.”
La traduzione in lingua italiana, “il sangue di tuoi fratello”, non rende la pregnante profondità del testo. Solo ritornando alle parole ebraiche si può iniziare a cogliere quei settanta significati che la Scrittura contiene. “I sangui”, al plurale in ebraico, sottintendono una pluralità di sangue versato: quello di un uomo e di tutta la discendenza che da lui deriva e dipende. Pertanto l’uccisione di Abele cancella infinite vite possibili, mondi interi e quei sangui versati ci chiedono il rispetto della vita, di ogni vita.
Un terzo esempio ancora: Gn 29,31, ovvero la fecondità di Lia, la trascurata. Queste le parole del commento di Luigi Rigazzi: “Giacobbe non riuscirà a evitare la rivalità, le invidie, le gelosie tra le mogli, che saranno causa di sofferenze: è forse rifacendosi a questa storia che verrà poi abolita la poligamia in Israele. Dio interviene a consolare la trascurata, o secondo una traduzione più esatta l'odiata;,e la rende feconda, anche qui secondo una traduzione più esatta' aprì il suo utero’, si potrebbe ricordare in I proposito l'affermazione del 'talmud' che Dio ha nelle sue mani tre chiavi: con una apre il grembo delle donne sterili, con una apre la terra e il cielo per far nascere le piante e far cadere la pioggia, con la terza apre le tombe per far risuscitare i morti. Un midrash afferma addirittura che tutte le matriarche di Israele sono sterili, e soltanto dopo l'intervento divino a loro è consentito concepire: questo per dimostrare che la storia del popolo eletto è guidata da Dio e dipende soltanto dalla sua volontà.” (pp. 143-144).
La tradizione ebraica segue percorsi interpretativi che scavano in profondità nel testo ed in particolare utilizza un’esegesi narrativa che racconta, a partire da quelle parole, quello che il testo vuole insegnarci o quello che dal testo è possibile fare emergere. Ecco allora il midrash delle tre chiavi e quello della sterilità delle matriarche d’Israele, l’uno e l’altro “raccontati” per insegnarci che tutto è nelle mani di Dio, utilizzando non la sapienza popolare ma la forza che si sprigiona dalla Parola rivelata.
Terzo volto. La parola del Primo Testamento letta e reinterpretata dalla parola del Secondo Testamento e dalla tradizione cristiana. E’ questa, forse, la parte più ricca del commento alla Genesi del nostro Autore, anche perché il commento nasce in ambito cristiano e rivolto a cristiani.
Un primo esempio. Il Secondo testamento riempie un vuoto del racconto del Primo testamento. E’ il caso della spiegazione del motivo del rifiuto da parte di Dio dell’offerta di Caino: “Il testo non ci dice i motivi di questo rifiuto: bisogna aspettare il N.T.per trovare un tentativo di spiegazione " Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino ed in base ad essa fu dichiarato giusto, attestando Dio stesso di gradire i suoi doni; per essa, benché morto, parla ancora” (Eb. 11,4); e "Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello. E per qual motivo lo uccise? Perché le opere sue erano malvage, mentre quelle di suo fratello erano giuste". (1Gv 3,12)” (p.53)
L’offerta di Abele è fatta per fede e il suo operare si pone nella linea della testimonianza data dagli antichi che hanno agito ed operato per fede: Henoc, Noè, Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, fino al Cristo che è autore e perfezionatore della fede.
E ancora: Abele è giusto mentre Caino è malvagio. Prima del sacrificio, vi sono le disposizioni d'animo di Caino e Abele: il primo diventa il prototipo del malvagio, il secondo rappresenta la figura del giusto, che prefigura il Giusto, ovvero il Cristo, «Mediatore della Nuova Alleanza», il cui sangue è «più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24).
E così si affaccia la lettura tipologica propria della lettura cristiana della Scrittura: il sacrifico di Abele è figura del sacrificio di Cristo.
Un secondo esempio. Il Primo testamento illuminato dal Secondo, ossia: la lettura tipologica. Vediamo come il diluvio e l’arca rientrino in questo tipo di lettura: “Tipologia cristologica, è la lettura che ne ha fatto la chiesa sin dal suo nascere, come con Noè nasce una nuova generazione, con Gesù si rinnova l'umanità. Tipologia ecclesiale, l'arca, mezzo di salvezza, prefigura la chiesa. L'acqua del diluvio è figura del battesimo, se leggiamo Eb 11,7 "Per fede Noè, avvertito divinamente di cose che ancora non si vedevano, costruì con pio timore un'arca a salvezza della sua famiglia,' e per questa fede condannò il mondo e divenne erede della giustizia secondo la fede". Ora ascoltiamo una delle preghiere che accompagnano la consacrazione dell'acqua battesimale che recita "O Dio, che lavando per mezzo delle acque i delitti di un mondo colpevole, hai purificato nel riversarsi del diluvio la rigenerazione, affinché per il mistero di un solo elemento si avesse la fine per i vizi e l’origine per le virtù” (pp. 66-67).
Come insegna S. Agostino: “Novum in vetere latet et vetus in novo patet” e questo rende possibile la lettura tipologica, secondo la modalità interna del Secondo Testamento. Scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: “Ora, fratelli, non voglio che ignoriate che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola e tutti passarono attraverso il mare, 2 tutti furono battezzati per Mosé nella nuvola e nel mare, 3 tutti mangiarono il medesimo cibo spirituale, 4 e tutti bevvero la medesima bevanda spirituale, perché bevevano dalla roccia spirituale che li seguiva; ora quella roccia era Cristo.” ( 1Cor 10,1-4)
Un esempio classico di metodo tipologico interno alla Scrittura lo abbiamo in Gv 3,14 ove Gesù, che è colui che apre le Scritture, dice a Nicodemo: “Come Mosè alzò il serpente nel deserto, così conviene che il Figlio dell’uomo - egli stesso - sia innalzato”. In questo versetto il serpente (Num 21,9) si configura come 'tipo’ prefigurativo di Gesù che risulterebbe a sua volta 'antitipo’ del serpente. Tipo ed antitipo sono i due elementi corrispondenti, l’uno nel Primo Testamento e l’altro nel Secondo; il primo è anticipazione ed il secondo è la sua realizzazione.
C’è, dunque, una via cristiana di lettura della Scrittura che non può essere abbandonata, in quanto ha il suo fondamento nel Secondo Testamento, nella liturgia della Chiesa antica e, poi, nell’insegnamento dei Padri della Chiesa (ampiamente citati nel commento di Luigi Rigazzi).
Va, però, precisato che la lettura cristiana tipologica non annulla la lettura ebraica del Primo Testamento, come è detto con chiarezza nei Sussidi (II, 6-7, Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell'Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo 24 giugno 1986) :
“6. È dunque vero ed è bene sottolinearlo, che la Chiesa e i cristiani leggono l'Antico Testamento alla luce dell'avvenimento del Cristo morto e risorto e che, a questo titolo, esiste una lettura cristiana dell'Antico Testamento che non coincide necessariamente con la lettura ebraica. Identità cristiana e identità ebraica devono pertanto essere accuratamente distinte nella loro rispettiva lettura della Bibbia. Ciò che, tuttavia, nulla sottrae al valore dell'Antico Testamento nella Chiesa e non vieta che i cristiani possano a loro volta utilizzare con discernimento le tradizioni di lettura ebraica.
7. La lettura tipologica non fa altro che manifestare le insondabili ricchezze dell'Antico Testamento, il suo contenuto inesauribile, il mistero che lo pervade, ed essa non deve far dimenticare che l'Antico Testamento mantiene il proprio valore di Rivelazione, che spesso il Nuovo Testamento non farà che riprendere (cf. Mc 12,29-31). Del resto, lo stesso Nuovo Testamento esige parimenti di essere letto alla luce dell'Antico. La catechesi cristiana primitiva vi farà costantemente ricorso (cf. ad es. 1Cor 5,6-8; 10,1 - 11)".
Quarto volto. L’esegesi scientifica e la teoria delle fonti.
Chiunque si avvicini, oggi, alla Genesi non può non riconoscere il cammino dell’esegesi moderna, in particolare la teoria delle fonti, che ci permette di cogliere in profondità la struttura del testo e di fare emergere nuovi sensi che non erano percepibili sena gli strumenti del metodo storico-critico. Fra le tante vi cito una stupenda pagina del libro, che ci presenta lo svilluppo storico e teologico delle fonti: jahvista, elohista, sacerdotale.
“Nel X secolo a.e.v, lo jahwista teologo della corte di Gerusalemme (regno di Salomone), ha interpretato le tradizioni patriarcali in modo da mostrare che la regalità davidica era il compimento finale elle promesse fatte ai padri. Nel'VIII secolo a.e.v.,dopo la divisione del regno in due stati indipendenti, un teologo del nord (elohista), ha attualizzato le stesse tradizioni, ma in un contesto sociale completamente diverso, perché egli deve combattere la religione cananea, che minacciava l'esistenza stessa della religione del Dio Unico. Nel VI secolo a.e.v., durante l'esilio in Babilonia, teologi giudei (sacerdotale), hanno interpretato le storie dei patriarchi attualizzandole in base alla loro situazione, per dare coraggio e rianimare i loro compagni di prigionia e prepararli al ritorno in patria. Questo bisogno di attualizzazioni continue e sempre nuove delle stesse tradizioni antiche, è proprio del 'genere omiletico '. La necessità di attualizzare ogni volta tradizioni antiche in situazioni in continuo mutamento e trasformazione è stata resa possibile grazie a questi grandi maestri e teologi: lo jahwista, l'elohista ed il sacerdotale. I patriarchi sono soltanto modelli da seguire, da imitare, perché testimoni di una 'parola-promessa' di Dio, che ha valore anche per chi ascolta oggi. Dei patriarchi la Bibbia non fa una 'biografia storica' che si può ricostruire in parte con le indagini scientifiche oggi a disposizione della storiografia moderna, ma fa una 'biografia sacra' il cui solo scopo è di proprre dei personaggi ritenuti 'modello di vita' per l'oggi, perché loro si sono messi all'ascolto di Dio, ed hanno accettato i suoi dettati senza porsi domande.” (pp. 83-84).
Penso che in nessun testo introduttivo alla Genesi o al Primo Testamento sia possibile trovare una più precisa e stimolante sintesi della storia delle fonti, che così spiegata non è archeologia del testo o frammentazione dell’unità della redazione finale, ma diviene una possibilità in più che ci viene offerta per fare della parole la Parola.
In conclusione, se è vero, come afferma Origene, che “Non c’è nella Bibbia un senso definito una volta per tutte”, dobbiamo ringraziare Luigi per averci offerto questo libro che è uno stimolo ad ognuno di noi per iniziare o continuare il cammino nella ricerca di quel settantunesimo senso della Scrittura, che è quel senso che ci attende se decidiamo di fare della Scrittura, nella vita e nello studio, la fiaccola che illumina la nostra via.







Prefazione

 “Rabbi Israele di Rižin raccontava: ‘… Tutti gli scolari di mio nonno, il Grande Magghid, insegnavano in suo nome, salvo Rabbi Sussja. Questo dipendeva dal fatto che Rabbi Sussja non aveva forse mai ascoltato fino in fondo un discorso del maestro. Perché al principio del discorso, quando il Magghid leggeva il passo della santa Scrittura che voleva spiegare, e cominciava con le parole della Scrittura «E Dio disse», Rabbi Sussja era subito rapito fuori di sé, e gridava e si muoveva così selvaggiamente che disturbava la tavolata e bisognava condurlo fuori. Allora stava nell’ingresso o nella legnaia, batteva contro le pareti e gridava: «E Dio disse!» Si calmava soltanto quando mio nonno cessava di spiegare la Scrittura’” (Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Guanda, Parma 1992, p. 214). Rabbi Sussja, in realtà, aveva capito con tutto se stesso che cosa significasse l’aprir bocca da parte di Dio: la creazione del mondo, e anche il racconto di tale creazione. Tutto questo si trova nella prima pagina della Genesi, nella quale vediamo prender forma, contemporaneamente, tre realtà concatenate e indivisibili: il manifestarsi di Dio come parola, la sua decisione di crearsi un “tu” che è appunto il mondo, e, infine e prima di tutto, l’identificazione della storia di Dio con il racconto. E’ profondamente vero, perciò, il titolo che Brunetto Salvarani ha dato a un suo commento biblico: In principio era il racconto. Ma il racconto biblico (che per un credente è considerato parola di Dio) deve essere continuamente di nuovo raccontato, perché ogni generazione ascolta la Parola secondo le proprie orecchie: è questa la vitalità perenne di quella Sacra Scrittura che ebraicamente è meglio chiamata Sacra Lettura.Quando, dopo l’esilio babilonese, la Bibbia cominciò a prender forma e la Genesi uscì dalla sua preistoria orale e divenne libro, ebbe inizio, se così si può dire, il racconto del racconto, cioè il racconto (con relativi commenti, interpretazioni, traduzioni) del libro. Un’avventura che dura tuttora e durerà sempre, e che impegna sia a livello religioso, sia a livello scientifico, sia a livello letterario e artistico. Non saranno mai abbastanza numerosi i mediatori di questa impresa, che richiede una conoscenza sempre nuova dei loro lettori/ascoltatori. Il libro di Luigi Rigazzi, in questo orizzonte acustico-visivo (nel senso che nasce da lezioni “dette” e si offre ora come lettura), ha una sua rara originalità, perché non perde mai di vista un pubblico non accademico, e nello stesso tempo è nutrito di una aggiornatissima conoscenza esegetica ed ermeneutica. Che è l’unico modo per non tradire il significato del “dire di Dio”, da intendersi qui in due sensi ineliminabili dal testo, ossia parlare di Dio e ascoltare Dio che parla. Mi pare che questa apparente e necessaria ambiguità sia salvata fino in fondo dall’autore, che ha pienamente realizzato quanto egli scrive all’inizio del suo commento: “Lo scopo della Genesi è quello di presentare l’uomo e la storia nel loro rapporto con Dio”; un rapporto che non ha mai fine, e quindi, paradossalmente, una Genesi che non ha mai fine.
                                                                                      
                                                                           Paolo De Benedetti




Premessa


Il presente lavoro deve la sua nascita alla richiesta di alcuni genitori della parrocchia di S. Prospero di Reggio Emilia, dove fui invitato nel febbraio del 2002 a tenere un corso biblico su ‘Genesi 1 – 50’. Inizialmente tale richiesta mi trovò disorientato, perché, sebbene da più di trent'anni mi interessi di studi biblici, di ebraismo e di ebraico, non mi ero mai cimentato a mettere i miei appunti per iscritto ad uso d'altri. Nonostante ciò accettai con entusiasmo, sapendo che sarei stato il primo a trarre beneficio da un tale impegno, e per circa un anno lavorai al progetto. Se ora nasce questo testo, di ciò devo ringraziare innanzi tutto Ivanna Rossi, che ha corretto le prime bozze del corso, Paolo De Benedetti e Sergio Caldarella, che avendo letto le dispense, mi hanno esortato, aiutandomi con consigli e suggerimenti, a trasformarle in un libro. Questo lavoro si rivolge in particolar modo a chi si avvicina per la prima volta alla Bibbia, e vuole iniziare un percorso di studio sistematico sul testo: avere i primi rudimenti storico-critici, scoprire la lettura della Genesi fatta dal Nuovo Testamento, dalla tradizione ebraica, e dai Padri della Chiesa, essere guidati a una lettura attualizzante del testo. Su Genesi esistono migliaia di testi, studiosi di tutte le generazioni si sono cimentati nel commento: ma, come dice De Benedetti, la Scrittura ha settanta sensi, anzi settantuno, perciò ognuno la recepisce secondo le sue conoscenze; infatti il testo è sempre aperto e pronto ad essere interrogato. La Genesi è stata posta all'inizio della Bibbia, proprio perché tratta delle origini; ma in realtà è la riflessione tardiva di un popolo che alla luce delle propria esperienza storica ripensa a come potrebbero essersi svolti gli eventi fin ‘dal principio’, meditando sulle proprie credenze e sulle riflessioni teologiche, nate dalla profonda fede in un ‘Dio Uno’. Il libro della Genesi intende in tal modo offrire una visione del rapporto dell'uomo con Dio e di Dio con l'uomo attraverso la storia.Le storie dei Patriarchi ed il ciclo di Giuseppe servono al redattore finale per gettare un ponte con l'Esodo e colmare, così, quel vuoto storico tra il soggiorno in Egitto dei figli di Israele e l'uscita da quel paese.



Reggio Emilia 30.06.07


                                                                                                Luigi Rigazzi




                                                                    GENESI


Genesi, ‘Bereshit’, ‘In Principio’, dalla parola iniziale del testo ebraico, primo libro del Pentateuco, comprende 50 capitoli ed è divisibile in tre parti:
1)     Storia primordiale biblica, creazione, peccato originale, caduta, Caino e Abele, diluvio e arca di Noè, Torre di Babele e dispersione dei popoli. Gen 1 - 11.
2)     Storia dei Patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe. Gen. 12 - 38.
3)     Storia di Giuseppe, la sua vendita come schiavo, la sua fortuna, discesa in Egitto di suo padre e dei suoi fratelli. Gen 39 - 50.
Redazione finale V secolo a.e.v.

 
La Creazione. Separazione.
Questo libro è stato posto all'inizio del testo biblico proprio perché è incentrato sul tema delle origini, ma in realtà è la riflessione più tardiva di un popolo, che, alla luce della propria esperienza storica, ripensa a come potrebbero essere andate le cose fin dal principio, meditando sulle proprie credenze e riflessioni teologiche e liturgiche nate dalla profonda fede nel Dio dei Padri. Lo scopo della Genesi è quello di presentare l'uomo e la storia nel loro rapporto con Dio. L'affermazione che Dio ha creato l'universo, ripetuta nel testo in maniera quasi ossessiva, si rivolgeva in forma polemica al mondo politeista dell'antico Vicino Oriente, e questa polemica presumeva il distacco totale da parte di Israele, nei confronti di queste religioni. Dal 587 a.e.v. Israele era in esilio in Babilonia, dove viveva come minoranza etnica e religiosa. I deportati si assimilarono rapidamente all'ambiente: ne avevano già assunto la lingua, come si deduce da una quantità di nomi babilonesi, ed era anche stato adottato il loro calendario. E' in questa situazione, lontani da Gerusalemme e dal tempio, che i deportati resistono all'assimilazione sul piano religioso, passando ad un ‘monoteismo assoluto’, eliminando ogni forma di ‘sincretismo’.[1] E' meraviglioso vedere come il piccolo Israele si sia preservato dagli insistenti influssi dei miti ‘cosmogonici e teogonici’ dell'ambiente in cui viveva.Nei miti della creazione del Vicino Oriente, il ‘caos primordiale’ viene personificato dalla divinità femminile Tiamat. Dopo l'uccisione di questa da parte del dio creatore Marduk, patrono di Babilonia (presso gli assiri questa operazione viene compiuta da Assur, patrono dell'Assiria), il cadavere viene diviso in due parti, una costituente il cielo, l'altra la terra: pertanto l'universo è il prodotto della spartizione di una divinità, perciò anch'esso divino. Nella tradizione sacerdotale (fonte P)[2] ciò non avviene, il cielo e la terra sono creati, quindi sostanzialmente diversi dal loro creatore, il quale come ha decretato la loro esistenza, può stabilirne anche la fine. Perciò quando il testo afferma la creazione divina, nega ogni forma di esistenza autonoma della creazione e delle creature: ambedue esistono soltanto in quanto creati ed in una relazione positiva con il loro Creatore





[1] Sincretismo. Fusione di più dottrine in una.
[2] Teoria delle fonti. Detta ipotesi < ipotesi documentaria >, il Pentateuco nasce dalla combinazione di quattro principali documenti , preceduti da tradizioni orali pre-letterarie, disposti nel seguente ordine cronologico non da tutti gli studiosi accettato: Jahvista ( J, secolo X ),Elohista ( E, secolo VIII), Deuteronomista ( D, o Dtn, secolo VII - VI ), Sacerdotale (P, secolo VI - V).





RIVISTA QOL



QOL, rivista bimestrale  di teologia e dialogo interreligioso,  è nata  a Novellara nell’estate del  1985 ed il suo   primo numero porta la data del gennaio 1986.
Fondata da un piccolo gruppo di teologi laici di Reggio Emilia e Modena si è ritagliata, in questi ventidue anni di vita,  un proprio piccolo ma importante spazio nel panorama delle pubblicazione  del  settore fino ad essere  oggi un preciso punto di riferimento per quanti hanno a cuore il dialogo ebraico-cristiano-musulmano.
In questi due decenni sono molte le  prestigiose firme nel campo della teologia  e del mondo del dialogo interreligioso ed interculturale che  hanno pubblicato articoli su  QOL.
QOL, parola ebraica che significa “Voce”,   vivendo in totale autonomia finanziaria (accetta solo occasionali pubblicità di libri e non riceve  sovvenzioni di nessun tipo) rappresenta uno spazio nel quale tutte le “voci” possono  esprimersi in totale libertà.
La redazione ha visto aggiungersi agli  iniziali sei fondatori “emiliani” numerose altre  persone che pur abitando lontano, sia  in Italia che all’estero,  hanno deciso di partecipare in modo più diretto alla vita della rivista. Oggi questo nucleo  di persone di diverse nazionalità e religioni si adopera, sia attraverso la rivista che attraverso le attività dell’Associazione Culturale QOL (nata da quasi dieci anni), affinché il dialogo interreligioso non sia del tutto messo a tacere dalla violenza che scuote il nostro tempo e che comunque non intende arrendersi alla perversa  logica dello “scontro di civiltà”.
A questo scopo sono stati organizzati, a Reggio Emilia, Modena, Fiorano Modenese, Milano, Roma e Siracusa, seminari importanti su temi come “Andare Oltre”  “Uccidere in nome di Dio”  “Il Muro e il Ponte”, settimane e seminari  di studio,  sia sull’Appennino reggiano che a Gerusalemme, oltre a corsi di ebraico biblico e numerose conferenze e pubblici incontri.









L'ALFABETO EBRAICO


L’Alfabeto Ebraico

E’ uscito nel mese di Giugno 2011, dalla Casa Editrice Morcelliana di Brescia, l’ultimo libro di Paolo De Benedetti, a cura di Gabriella Caramore, “L’Alfabeto Ebraico”. Possiamo dire l’ultima “perla”, di questa fattiva collaborazione, realizzata grazie alla trasmissione radiofonica di Radio Tre “Uomini e Profeti”.
Scrive Gabriella Caramore nel risvolto di copertina del libro: “In nessun’altra lingua, forse come nell’ebraico, un alfabeto è così intriso di storia, di senso, di materia dell’uomo e di presenza di Dio. In nessun’altra lingua il codice espressivo è così denso di carne e di sangue, d’interrogazione filosofica e di pensiero teologico. Dio sul Monte Sinai si è incarnato, se così si può dire, in una scrittura fatta con l’alfabeto.” E’ sorprendente che un argomento arido, come può essere quello di parlare e discutere di o su un’alfabeto, parlare e discutere dell’alfabeto ebraico, diventi invece un’avventura affascinante,  coinvolgente.
Possiamo iniziare dicendo che l'alfabeto ebraico è composto da ventidue lettere (ventidue è il valore numerico della circonferenza, approssimata per leggero difetto, di un cerchio il cui diametro è sette, uno dei numeri-chiave della creazione). Ognuna di esse è uno strumento attraverso il quale un intero settore della creazione fu formato e fatto.[1] Nel libro è citato un bellissimo midrash, che troviamo in  Bereshit Rabba' 1,10[2], secondo cui nasce una discussione (disputa), il testo dice, durata per ben ventisei generazioni, tra le lettere dell’alfabeto che chiedono al Santo benedetto egli sia, perché la creazione del mondo non è iniziata con una di loro. La prima lettera, la alef, è offesa, perché essendo la prima, e sarebbe stato giusto che il mondo iniziasse con lei.  Il Santo benedetto egli sia, ha il suo bel da fare a convincerla, e infine la consola dicendole che quando darà la Torà sul Monte Sinai comincerà con lei come è detto: “’Anoki ’adonaj ’eloheka” “ Io sono il Signore Dio tuo” ( Es 20,2).
Osserva bene la Caramore: la storia dell’alfabeto ebraico è stata un’avventura che ha attraversato tutta la storia dell’ebraismo, dalla vita quotidiana del popolo d’Israele, all’interpretazione del testo,  alla mistica  e alla qabbalà. Afferma Paolo De Benedetti che l’alfabeto ebraico, oltre che foneticamente, bisogna conoscerlo anche visivamente (p.14) e che esso non è soltanto un sistema di segni  per scrivere le parole, ma  ha anche un profondo senso teologico. Per i maestri d’Israele l’importanza dell’alfabeto è talmente grande che, secondo un antico midrash, le ventidue lettere (tutte consonanti) sono una delle cose create da Dio il venerdì sera, pochi istanti prima che cominciasse lo shabbat. A tale riguardo, afferma De Benedetti: “ Vorrei aggiungere anche che la creazione comprende due momenti non raccontati nel capitolo primo della Genesi: uno è appunto quello del venerdì sera tardi, l’altro invece riguarda le cose che Dio ha creato prima di plasmare il mondo. Prima ho attribuito la creazione delle lettere a questo momento più antico, e non escluderei che pure qualche maestro le collocasse lì. Non intendo allargare il discorso, però voglio affermare che, prima di creare il mondo, Dio ha creato il pentimento. [….] Non garantisco di ricordarmi se c’è un luogo dell’immensa letteratura esegetica in cui l’alfabeto viene anticipato ancora, però mi piacerebbe ci fosse e credo che l’alfabeto e il pentimento abbiano qualche parentela. [….] Il pentimento ristabilisce un ordine interno o esterno, e per me le lettere dell’alfabeto costituiscono un ordine. Se le lettere dell’alfabeto si scompigliassero, succederebbe qualche cosa di analogo a quello che produce il peccato quando scompagina l’ordine (pp. 18,19).
Veniamo ora al collegamento che ha l’alfabeto ebraico con la mistica e la qabbalà che come dice l’Autore, sono anch’esse forme di esegesi. Secondo De Benedetti, la mistica ha avuto due momenti storici importanti: il primo millennio e il secondo millennio. Le speculazioni della mistica si dividono in due scuole, la prima delle quali “ Opera del bereshit”, cioè del “Principio” della Genesi, della creazione, in ebraico “ma ‘asè bereshit”, è  detta mistica “discendente”. La seconda “opera del carro”, “ ma ‘asè merkavà”, che si rifà al primo capitolo di Ezechiele, è detta mistica “ascensionale”. Quando la Caramore, con precisione e acume, trascina l’Autore a parlare di questi argomenti, che ha sempre detto di non conoscere e frequentare, ci accorgiamo invece che a tutte le domande il professore sfodera una conoscenza immensa, e, sempre col suo modo di porsi, risponde alle complesse domande con altrettante articolato, articolate, erudite ed esaurienti risposte. E’ noto che la mistica non ha avuto presso il rabbinato italiano, nella sua lunga storia, vita facile, ma pochi sanno che fu Giulio Busi[3], durante i suoi anni di studio e di ricerca presso tutti gli archivi delle comunità italiane e straniere, a scoprire in Russia e a Gerusalemme, per puro caso, che uno dei centri più importanti dello studio della mistica e della qabbalà in Italia fu Reggio Emilia tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento e uno dei suoi massimi esponenti fu Anania Coen,  editore e letterato ebreo di quella comunità. L’ultimo grande studioso di mistica e qabbalà del rabbinato italiano fu Elia Benamozegh (1822 – 1900), il grande Rabbino di Livorno, che per pubblicare i suoi studi è dovuto andare in Francia,  ed ebbe contro anche uno dei più grandi pensatori ebrei del momento, Samuel David Luzzatto (1800 – 1865). La disputa, a mio parere non risolta, è durata sino alla morte del professore padovano ed  ha arrecato grandissimi danni alla cultura ebraica italiana.
E’ bellissima la pagina dove la Caramore ricorda un racconto tratto dal libro di Buber Racconti dei chassidim della Garzanti uscito nel 1988, racconto riferito al Baal Shem, che in viaggio verso Israele con sua figlia e il segretario, vicino ad Istanbul sbarcati su un’isola, sono fatti prigionieri dai pirati. Alla domanda perché non faccia nulla per salvarli, il Baal Shem risponde al segretario di non ricordare più nulla, di aver perso ogni facoltà, e gli chiede se ricorda qualcosa di quanto gli ha insegnato. Il segretario gli risponde che l’unica cosa che gli è rimasta impressa è l’alfabeto, al che il maestro lo esorta a recitarglielo affinché anche lui possa impararlo, insieme iniziarono a recitare l’alfabeto con fervore, e tutto si risolse. Conclude De Benedetti: “ Tutte le preghiere infatti sono fatte delle ventidue lettere dell’alfabeto e io credo che se noi recitiamo a Dio l’alfabeto con kawwanà (intenzione, direzione verso Dio), egli lo gradisca come tante preghiere insieme”(pp.36,37).
Nel libro c’imbattiamo ancora una volta in uno degli argomenti più cari a De Benedetti,  cioè la pluralità di sensi della Parola detta da Dio, i settanta sensi, questo perché la parola ha un senso che è rivolto ad ognuno di noi, in ogni generazione. Perciò afferma De Benedetti:”La verità è una solo in Dio. Io non posso pretendere, qualunque sia la mia autorità nella religione, che il significato della parola sia quello che dico io. Ce ne sono, ripeto, 70. E 70 è un numero multiplo di 7, corrispondente alla lettera ‘ajin, come vedremo poi, che indica quasi la totalità: “i 70 popoli della terra”, “le 70 lingue del mondo” e così via” (pp.55,56). Ma, aggiungo io, come ci ha sempre insegnato Paolo De Benedetti, esiste il settantunesimo senso, quello che può essere rivelato ad ognuno di noi e ad ogni uomo in tutte le generazioni, e come scrive Gianpaolo Anderlini[4]: “quello è il nostro senso, il volto di Dio che riusciamo a scoprire coi nostri occhi, con le nostre orecchie, e con le nostre mani tra gli spazi bianchi e le lettere nere del testo letto, interpretato e vissuto. E forse (ne sono certo), c’è anche un settantaduesimo senso, quello che non può essere disvelato qui ed ora a nessuno e da nessuno. E’ il senso che riusciremo a cogliere e ad intendere solo nel “’olam ha-ba’” il  mondo a venire, quando al cospetto del Santo benedetto egli sia, potremo discutere con lui ed apprendere da lui, il Maestro che da sempre ci attende, quei sensi della Parola che la nostra miopia e la nostra limitatezza non ci hanno permesso di scoprire”. Perciò se nel Testo Sacro non c’è un unico senso, un senso definito, dobbiamo ringraziare Paolo De Benedetti, che come ha fatto con tutte le “perle” precedenti, anche con questo libro ci stimola a continuare la ricerca di quel “Settantunesimo” senso della scrittura, che ognuno di noi può trovare nello studio della Parola del Santo benedetto egli sia.

                                                              Luigi Rigazzi















[1] Breve spiegazione delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, www.cabala.org
[2] Aa.Vv., Bereshit Rabbà, UTET, Torino,1978, pp, 34,36.
[3] Giulio Busi, Anania Coen.  Editore e letterato ebreo tra Sette e Ottocento, Fattoadarte, Bologna, 1992.
[4] Gianpaolo Anderlini, In Principio, Novellara, (RE), 15.12.010, p, 2.

CAMILLO BERNERI




F.I.A.P.
FEDERAZIONE ITALIANA DELLE ASSOCIAZIONI PARTIGIANE
Circolo “ Fratelli Rosselli” Reggio Emilia


CAMILLO BERNERI 70 ANNI DOPO


Compagne, Compagni, sono onorato oggi di essere qui, come Rappresentante Provinciale della F.I.A.P. (Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane), associazione a cui aderirono Parri, Bobbio, Galante Garrone. Associazione nella quale si riconobbero le varie anime libertarie della Resistenza al nazifascismo, dai Repubblicani agli Azionisti agli Anarchici. Siamo qui per ricordare uno dei più grandi combattenti dell’antifascismo Camillo Berneri. La F.I.A.P. di Reggio Emilia “ Circolo Fratelli Rosselli”, ha voluto aderire a questa manifestazione organizzata dalla F.A.I. Reggiana, per la posa della lapide in onore di Berneri, Anarchico, grande antifascista sin dalla prima ora. Uomo multiforme ed eclettico, allievo e poi collaboratore di Salvemini all’Unità, collabora pure alla “ Rivoluzione Liberale” di Gobetti, istaura un confronto molto interessante con Giustizia e Libertà, unica formazione della sinistra con la quale gli anarchici condivisero la visione di lotta da portare al fascismo.Fuoriuscito ed esule in Francia ove collabora con i Fratelli Rosselli. Allo scoppio della rivoluzione spagnola, è tra i primi ad accorrere ed organizzare il primo contingente italiano in terra di Spagna. Muore a quarant’anni a Barcellona, assassinato il 5 maggio del 1937 per mano di sicari stalinisti. Ho trovato molto bella la frase di Camillo Berneri che i compagni della FAI hanno messo sul volantino della manifestazione: “L’Utopista accende delle stelle nel cielo della dignità umana, ma naviga in un mare senza porti”.

Reggio Emilia, li 20 maggio 2007

Il Coordinatore Provinciale F.I.A.P.                                                  Luigi Rigazzi