domenica 16 giugno 2013


STORIA DELL’ACQUA D’ORCIO
ACQUA D'ORZ

di Luigi Rigazzi

 

L’acqua d’òrz / orcio  è una bibita dalle origini molto antiche, che fa parte della cultura e della tradizione del popolo reggiano, perché se ne hanno notizie sin dal 1400.


NOME E PREPARAZIONE


La denominazione  Acqua d’òrz c’entra poco o quasi nulla con l’orzo. Piuttosto si è portati a  pensare che sia  una corruzione avvenuta nel tempo del termine “orcio”, perché questa bevanda veniva trasportata e tenuta al fresco negli orci. Scrive Numa Ciripiglia[1] 1che forse prima del XV secolo, quando ancora non era conosciuta la liquirizia, l’acqua d’òrz si otteneva con l’orzo, pianta nota all’uomo sin dall’antichità, usata per la panificazione, per la fabbricazione della birra, per farne bevande e nell’alimentazione animale. Ma proprio nel XV secolo fu importata in Europa dai monaci Domenicani la liquirizia, presente  in Cina da diversi millenni e utilizzata come rimedio curativo. La Glycyrrhiza glabra / Liquirizia è una pianta erbacea perenne alta fino a un metro, appartenente alla famiglia delle Leguminose, che contiene zuccheri, potassio, calcio, magnesio, fosforo ed altri minerali. Da questa si ricavò l’acqua d’òrz, come ultimo sviluppo di una storia plurimillenaria.

L’ingrediente di base dell’ acqua d’òrz era il <<sùg>> (succo) di liquirizia. Si preparava facendo bollire in un  paiolo di rame  della  liquirizia pura in pani e della liquirizia in stecche di legno, fino a ricavarne uno sciroppo molto denso, detto appunto << sùg>>, che veniva trasportato in piazza con dei secchi di lamiera smaltati e messo a refrigerare nel banco frigo. Prelevato con la cuccuma e allungato con acqua, si otteneva il meraviglioso bicchiere d’acqua d’òrz, che si poteva correggere con l’aggiunta di menta, limone o citrato.

 
UNA STORIA ANTICA

Nel Vicino Oriente la bevanda era  conosciuta sin dall’antichità, sia dai Babilonesi che dagli Egizi già 4.000 anni prima dell’era volgare. Ne sono state trovate attestazioni nei papiri di alcuni ricettari medici per i problemi di stomaco e fegato, e addirittura delle vere e proprie tracce nella tomba del Faraone Tutankhamon. Si sa che i medici Greci, Romani ed Arabi la impiegavano per curare la tosse, i dolori di stomaco e le indigestioni. Ma soprattutto in Cina  era apprezzata per i suoi poteri curativi: come risulta dal primo erbario a noi noto, la liquirizia viene utilizzata da circa 5.000 anni ed è una delle piante più importanti. I medici cinesi la prescrivono da sempre anche loro, per curare la tosse, i disturbi del fegato e le intossicazioni alimentari.

Tornando al Vicino Oriente e al Mediterraneo,  per le strade  di Instabul, Damasco, Il Cairo e nelle capitali del Maghreb da millenni si incontrano per le strade degli ambulanti con pantaloni larghi alla turca, con sulle spalle una volta un orcio o un otre, oggi un recipiente pesante in lamiera pieno di Erk Sous,  la bibita a base di liquirizia.

L’ ACQUA D’ORZ A REGGIO EMILIA

A Reggio Emilia se ne ha notizia sin dal 1412 da un editto del Governatore della città, Ippolito Malaguzzi (nonno di Ludovico Ariosto), il quale autorizzava la vendita sulla Piazza Maggiore (l’odierna Piazza Prampolini) dell’ Acqua d’orz[2].  Come questa bevanda sia arrivata fin qui è un mistero, ma secondo Giorgio Maioli,[3] probabilmente fu introdotta dai commercianti reggiani che valicavano gli Appennini e si recavano in Toscana per i loro commerci, perché più redditizi di quelli con le città limitrofe come Modena e Parma che avevano gabelle pesantissime, e poi perché la Toscana in quegli anni era all’avanguardia per l’apporto di idee e di merci provenienti da tutto il mondo conosciuto. Come afferma il Maioli, una delle idee che arrivarono dalla Toscana fu quella di mettere davanti alla bottega un orcio contenente una bibita, al quale potevano attingere gratuitamente i clienti che entravano in bottega, da cui l’appellativo di “Acqua d’orcio”. Il passo successivo fu che alcuni commercianti iniziarono la vendita dell’acqua d’orcio per le strade e qui subentrò l’editto del Governatore Malaguzzi.

LA FAMIGLIA PIOLANTI

A Reggio Emilia negli ultimi cento anni è stata depositaria sia della ricetta sia della mescita e vendita dell’acqua d’orz la famiglia dei Piolanti. Risale infatti al 23 giugno 1910 il contratto di vendita di un chiosco in legno posto in Piazza Vittorio Emanuele angolo via Carducci (attuale Piazza C. Prampolini), stipulato tra il Sig. Spaggiari Enrico ed il Sig. Piolanti Francesco. Il contratto[4]  recita che: “il Signor Piolanti Francesco compra quel chiosco in legno con tavolone di marmo bianco, fontana d’acqua potabile, bicchieri, cestini (cavagnin, n.d.a.), cabarè e bottiglie, vaschetta per la pulizia dei bicchieri, pentola per il sugo (paiolo per il sùg, n.d.a), insomma tutto quanto serve all’arredamento del chiosco stesso”. ”. Da sempre, la vendita dell’acqua d’òrz era stato un mestiere riservato alle donne, e la moglie di Piolanti Francesco, Filipponi Albina, ne aveva appreso il mestiere sin da bambina coadiuvando una signora che aveva il banchetto per l’òrz, all’angolo della galleria del Broletto. L’attività è stata portata avanti dalla  Filipponi e dalle nuore: Primetta Pescatori, Giuseppina Cocconcelli, Luigia Maletti, mogli dei figli di Francesco Piolanti.

Sul ruolo delle donne e sul rituale della degustazione  scrive  Numa Ciripiglia:[5]In passato il <<sùg>> era confezionato soltanto da certe fruttivendole e da donnette le quali esercitavano – durante la stagione estiva – esclusivamente la minima, infima industria della vendita dell’<<acqua d’òrz>> che spacciavano al prezzo di un centesimo per ogni bicchiere, ampio quanto una capace tazza.
Questa bibita, dissetante e gradita, era venduta all’aperto su certi tavolinetti dipinti di bianco, o allo sportello di << chiosc>> ove troneggiavano la bottiglia di vetro trasparente con il <<sùg>> e la botticella con l’acqua di scorta. I richiedenti bevevano stando in piedi davanti alla mescita, ma ove ciò fosse stato richiesto, <<l’acqua d’òrz>> era anche recapitata a mezzo di appositi portabicchieri detti <<cavagnin>> formati da un cilindretto di lamiera di ottone, mantenuto lucidissimo, alto un po’ meno, largo un po’ più del bicchiere e munito di un manico arcuato che si elevava circa una spanna sopra i margini del cilindretto ai cui fianchi era saldato. Di tali <<cavagnin>> ve n’era per un solo bicchiere, ed anche per due: raramente per un numero maggiore”. In Piazza Prampolini un altro chiosco gestito dalla famiglia della Signora Storchi Elide, vendeva anch’esso l’acqua d’òrz.
La famiglia Piolanti ha tenuto aperto il chiosco sino al 1980, rifornendosi abitualmente di pani di liquirizia pura da un grossista di Catania. A tal proposito è da ricordare un aneddoto curioso: il fornitore dei pani un giorno volle capire chi era che comprava da anni una quantità industriale di liquirizia pura, degna di una ditta farmaceutica o di un laboratorio di trasformazione. Presentatosi a casa dei Piolanti, rimase veramente sorpreso e meravigliato quando apprese che serviva per fare il “sùg”, lo sciroppo 
per l’acqua d’òrz. Venne così a conoscenza della bibita che i reggiani per più di cinquecento anni hanno sempre amato ed apprezzato sia per le sue qualità rinfrescanti che curative.

 


1Numa Ciripiglia, Cucina tradizionale reggiana. Notizie e Commenti, Libreria Nironi & Prandi, Reggio Emilia, 1944,  p. 20.
2 Gianni Franceschini, Riccardo Barbieri Manodori, La cucina reggiana, duemila anni a tavola, Tecnograf, Reggio Emilia, 2006,  p,  150.
3 Giorgio Maioli, I racconti della tavola a Reggio Emilia, Edizioni Ges, Bologna, 1980, pp. 199,204.
4 Contratto di vendita fra il Sig. Spaggiari Enrico e il Sig. Piolanti Francesco, Notaio Di Pietro Vigano, Reggio  Emilia 23 giugno 1910, p. 4.
[5] Numa Ciripiglia, Cucina tradizionale reggiana. Notizie e Commenti,  op, cit,  pp, 19, 20.

venerdì 15 marzo 2013

 
 
 
 
 
ESODO
 e Dio Disse a Mosè...
Luigi Rigazzi
 
 
 
 

 

Luigi RIGAZZI,

Esodo. E Dio disse a Mosè…,

con prefazione di Amos Luzzatto e postfazione di mons. Vincenzo Bertolone

Pozzi Editore, Reggio Emilia 2013, pp 160, € 12,00. ISBN 978-88-87539-19-6

 

            Il libro di Luigi Rigazzi, Esodo. E Dio disse a Mosè…, come afferma l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace Bertolone nella postfazione, è “uno zelante, colto, profondo, ma anche poetico commento al secondo libro del Pentateuco”: l’Esodo, Shemot, “Nomi” nella tradizione ebraica. E’ la seconda opera dell’autore, che continua il cammino di ricerca iniziato con il libro E Dio disse… Un commento a Genesi (2007); cammino, come indicato in entrambi i titoli, incentrato sul tema del parlare del Dio (“e Dio disse”, wayyòmer, in ebraico) che prima crea il mondo e poi si rivela all’uomo con la parola e nella parola. E’ per questo che l’indagine di Rigazzi prende le mosse dal testo ebraico e dalla sua interpretazione all’interno della tradizione viva d’Israele e poi si apre alla ricezione cristiana, sia nell’utilizzo che dell’Esodo è stato fatto nel libri del Nuovo Testamento sia nell’interpretazione dei Padri della Chiesa e dei commentatori, cattolici e non, che nel corso del tempo hanno affrontato l’analisi dell’Esodo.

            Nella prefazione Amos Luzzatto coglie una delle specificità di questo libro:  “Se il mondo cristiano vuol capire l’ebreo, conoscerlo, possibilmente anche amarlo, deve capire che non si tratta del popolo del Libro ma del popolo del Libro e della sua interpretazione. E’ questo il valore di questo Esodo letto da un amico cattolico che da tempo si è aperto al dialogo con il mondo ebraico; che non significa confondersi gli uni con gli altri ma conoscersi sempre meglio. Per questo gli siamo grati”. Ma anche i cristiani gli debbono essere grati. Infatti, se, come osserva ancora mons. Bertolone, “per i cristiani il passaggio del Mar Rosso prefigura il battesimo, e inoltre, nella Pesach – che è il memoriale dell’uscita dall’Egitto - si compie il mistero della morte e risurrezione di Cristo”, non si può andare alle radici della Pasqua e della Redenzione, quindi della fede cristiana, senza passare per l’Esodo e per i suoi diversi volti.

            Anche chi si avvicina al testo biblico con sguardo agnostico o di sola curiosità intellettuale può trovare nel volume di Rigazzi un valido aiuto e supporto nella lettura, in quanto l’attenzione all’esegesi storico-critica fornisce al lettore quelle informazioni che sono oggi necessarie per interpretare il testo con occhio insieme moderno e insieme antico.

            La citazione con cui il libro si conclude riassume in modo perfetto lo spirito di ricerca e di fede che ha animato l’autore nel suo cammino di ricerca e di studio tra le lettere nere e gli spazi bianchi del libro dell’Esodo: “L'Esodo è una specie di codice genetico per la fede d'ebrei e cristiani. Per gli ebrei, la liberazione dalla schiavitù dell'Egitto è l'esperienza originaria e fondante della salvezza e della rivelazione: tutta la Bibbia segue lo schema del Libro. Nuovo Testamento compreso” (Piero Bargellini).

 

LUIGI RIGAZZI (n. 1944), amante della Parola, da ormai quarant’anni studia sistematicamente i Testi Sacri con passione e dedizione, approfondendoli anche nelle lingue originali e prestando particolare attenzione alle interpretazioni della tradizione ebraica. Riconosce come sui maestri e amici: Paolo De Benedetti, Martin Cunz, Don Pietro Lombardini, Pierre Lenhardt, Daniele Garrone, Gianpaolo Anderlini, Brunetto Salvarani, Amos Luzzatto, Enzo Bianchi, Raniero Fontana e Piero Stefani.

Fa parte della redazione della rivista QOL, che si occupa del dialogo cristiano-ebraico.

Tra le sue pubblicazioni il libro E Dio disse… Un commento a Genesi (Reggio Emilia 2007).

 

Prezzo di copertina € 12,00 per i lettori sconto 25%, senza spese di spedizione.
Per informazioni: Luigi Rigazzi Tel. 0522. 439624 – 389. 1029005 – torrazzo@libero.it